L’album dei ricordi: cuofini…e…fimmin’i barracca ! ( 2° parte)

a cura di Massimo Ristuccia

di Ezio Roncaglia

CUOFINI…e…FIMMIN’I BARRACCA! 2 parte

cuofiniSiamo ancora negli anni precedenti all’avvento delle bilance a due piatti e poi a scala.

Bilance che, nella loro prima apparizione da noi, (fuori dalle botteghe di alimentari, i macellai e simili e fuori dai magazzini dove si usavano già le bascule) erano costituite quasi solamente dalle “ stadere “.-

Anche i pescivendoli, usavano una sorta instabile, incerta, ….di stadera.

La cui precisione era certamente connotata da generose approssimazioni : soprattutto se, come avveniva normalmente, l’uso risentiva di una certa, invincibile … fretta !

 

I “ cuofini “ contadini di cui parlo venivano definiti “ cuofin’ i raggina “ e vedevano il momento del loro grande trionfo in occasione della vendemmia.-

 

La loro utilità si diffuse abbastanza, ed abbastanza in fretta, perché venne mutuata come unità di misura “ dedicata “, … e venne abbondantemente usata per eventi … spesso appena, oppure forzatamente correlati.-

 

Per esempio per l’uso-affitto (e conseguente remunerazione) di un palmento per la pigiatura dell’uva di proprietà di quei soggetti (abbastanza numerosi) che avevano la vigna e non avevano, o non avevano più, il palmento. –

 

Questo servizio, precedentemente, e forse da sempre, veniva pagato in barili di mosto, ma lasciava scontenti tutti perché il rendimento dell’uva variava da un anno all’altro e, quindi, una volta sacrificava il proprietario del palmento ed un’altra il proprietario dell’uva….-

 

In più, incideva non poco, (e qualche volta pesantemente), la capacità, la bravura, lo zelo, l’impegno degli addetti …. ossia dei “ pigiatori “ che usavano solamente … i piedi.-

 

I “ cuofin’i raggina “ vennero persino usati come unità di misura per stabilire il valore nella compravendita dei vigneti : nel senso che, il valore di un vigneto, in quel preciso momento, veniva indicato non in lire bensì in … “ cuofin’ i raggina “. –

 

Il quotidiano era saturo di saggia pazienza e la premura era considerata una debolezza, … oppure ingenerava il sospetto di un imbroglio.

 

Per cui, la conclusione della transazione veniva rinviata a dopo la vendemmia, che era presieduta e controllata dall’aspirante compratore (o da un suo fiduciario) che, in accordo-contraddittorio con il proprietario (aspirante venditore), accertava la quantità di uva prodotta e vendemmiata : da qui il valore del vigneto.

 

Ricordo un vecchio signore , donn’Antonino Restuccia, ( che oggi avrebbe almeno 140 anni ed a cui la mia famiglia era molto vicino) che spiegava pazientemente al mio Papà, (che, ai suoi occhi, essendo un piemontese, era solo un “ polentone “ che non capiva gran che), le tante ragioni che rendevano la valutazione di un vigneto in “ cuofin’ i raggina “ la più corretta e la più sicura. –

Sicuramente la più moderna !

 

Perché, diceva donn’Antonino, … “” conta molto, ma non è assolutamente determinante, la sua superficie espressa in metri quadrati “”. 

 

E, comunque, allora, non si parlava quasi mai di metri quadrati, bensì di “ prieule “ .

 

 

Una “ prieula “ era pari a circa 66 mq.(credo). 

Diceva e spiegava donn’Antonino, riferendosi al raccolto, (cioè al vendemmiato, espresso perciò in “ cuofin’ i raggina “), che, in un colpo solo, e senza possibilità di inganno, si riusciva ad evidenziare :

 

il numero delle viti ;

la loro età e la loro capacità produttiva ;

la qualità del terreno, ossia proprio della terra, riferita alla sua capacità di raccogliere prima, e di mantenere poi, il giusto tasso di umidità ;

la posizione del sito, riferita sia alle ore ed all’angolo di soleggiamento, ma anche di riparo dal vento nelle settimane delicatissime della fioritura, ecc. ecc. –

 

Ma torniamo alle navi che caricavano la Pomice in pezzi.

 

Una volta sottobordo, queste ceste, grazie ai mezzi meccanici della nave, venivano issate in coperta ed immediatamente calate in stiva .-

Fino ai primi due decenni del 1900 questa operazione veniva fatta, sui velieri, da bordo, con verricelli a mano, successivamente azionati da motori diesel.

 

L’aspetto affascinante contenuto in queste memorie sta nel fatto che, probabilmente fino all’ultimo ventennio del 1800) non venivano usati imballaggi : le ceste di cui si è detto venivano svuotate nella stiva della nave con grande cura e delicatezza, ed i pezzi venivano maneggiati uno alla volta, realizzando delle pile (in dialetto dette “ cugne “ ) in cui i pezzi erano sistemati, posizionati ed incastrati tra di loro. –

 

Nella buona sostanza, si trattava di veri e propri muri a secco di lunghezza tra di 3 ed i 5 metri, di profondità di poco superiore al metro (corrispondente grosso modo all’estensione possibile delle braccia dell’esecutore) e di altezza che raramente raggiungeva i due metri.

 

Abitualmente (ma non obbligatoriamente sempre) era la stessa nave che forniva delle vecchie stuoie e/o comunque delle strisce di tessuto pesante che venivano stese sulla pomice, ogni 50/60 cm. di altezza, per moltiplicare la resistenza della pila ed assicurarsi che non franasse durante il viaggio quando, con altissima probabilità, la nave sarebbe stata scossa, in tutti i sensi, dai marosi .

Quando non era la nave a fornire le stuoie, i locali si industriavano estemporaneamente a reperire rami di fascina (più preferibilmente di ginestra verde) che svolgevano altrettanto egregiamente il loro compito.-

Un personaggio storico della baracca della Geoffray & Jacquet, grandissimo esperto di Pomice in pezzi, mi ha narrato che, qualche volta, venivano anche usati (secondo la stagione) lunghi getti di rovi verdi, … ma trattandosi di lavoro svolto a mani rigorosamente nude, … questa variante non era particolarmente gradita.

Un dato che aggiunge ulteriore colore a questi ricordi è che – di solito – queste operazioni in stiva venivano eseguite, con autentica ed indiscussa maestria, da personale femminile.

Erano le “ donne di baracca “ ( “ fimmin’ i barracca “) . –

E, attenzione, l’appellativo, lungi dall’essere dispregiativo, era sinonimo di considerazione e rispetto perché riferito ad una categoria che aveva acquisito consistenti (spesso addirittura elevati) livelli di professionalità, riconosciuta ed apprezzata. –

 

Probabilmente, prima di proseguire, va chiarito il significato, ma anche il ruolo, che aveva assunto la parola “ Barracca “ :

a) le case di abitazione sull’isola avevano puntualmente i tetti piani, rigorosamente dedicati alla raccolta dell’acqua piovana, la sole fonte idrica esistente, possibile e … consolidata. 

 

L’interno delle case aveva di solito un’altezza singolarmente elevata, molto spesso fino a mt. 3,50 e qualche volta anche 3,80. –

In scritti di fine ‘800 si trova traccia di questa particolarità. 

A visitatori stranieri incuriositi, era stato spiegato che ciò consentiva di combattere la calura e la grande, insopportabile afa estiva. 

Si tratta di tempi in cui, evidentemente, il dato che affliggeva più particolarmente gli indigeni era il caldo estivo, mentre nessuna menzione viene raccolta a proposito di rigori invernali.

Ma non parliamo degli assiri e dei babilonesi, parliamo di appena 150 anni orsono.

Sono stati tramandati dati, per esempio riferiti ai periodi della semina di certe colture, che lasciano pensare che la stagione calda avesse una predominanza sia in termini assoluti (lunghi picchi di calura) che in termini relativi (estensione temporale in rapporto all’anno solare). –

Debbo anche ricordare, però, che fino alla fine dei primi quattro decenni del secolo scorso (1940) abbondavano nella case locali i letti alti fino ad 1,30 dal piano di calpestio.

Il letto classico non aveva ancora conosciuto le reti metalliche ed era costituito da cavalletti in ferro (i “ trispiti “) che, posti parallelamente a testiera e pediera, accoglievano nel senso della lunghezza delle assi di legno abete, leggero e poco nodoso, piallate sui due lati, di spessore tra 2,5 e 3,oo cm. (i “ tavul’ i liettu “) su cui poggiava il materasso.

Queste tavole, di larghezza media attorno ai 25 cm., erano munite, sui due bordi longitudinali superiori ed inferiori, di un intelligente tassello largo circa 2 cm. e lungo circa 10 cm., che provocava una fessura di circa 4/5 cm. tra un’asse e l’altra, sufficiente ad assicurare al materasso la necessaria aereazione.

Molto spesso i cavalletti, (i “ trispiti “) avevano un’altezza tra i 105 ed i 110 cm., con la conseguenza che , aggiungendo lo spessore delle tavole e quello del materasso, il letto si trovava a circa 130 cm. da terra.

E’ stato ripetutamente spiegato che questa altezza (peraltro molto scomoda in fase di accesso, soprattutto per anziani e bambini) mirava a combattere la rigidità di certe notti d’inverno .

Infatti, il corpo, posto a circa 150 cm. da terra, era già al riparo (o abbastanza al riparo) dal freddo che si concentra e si accumula, per strati, nella parte più bassa dell’ambiente.

In più, nella parte bassa degli ambienti, erano più presenti e dannosi gli spifferi generosamente consentiti dagli infissi dell’epoca.

b) Gli edifici in cui si lavorava la Pomice, si scartava, si selezionava ecc. ecc. erano invece delle grandi, spesso grandissime (fino a 500 mq.) costruzioni con copertura in tegole marsigliesi su ordito di legno, con tecniche di ottimo livello, tant’è che alcune resistono ancora in perfetto stato di conservazione vecchie di oltre un secolo.cuofini pomice

E molte di quelle altre che non ci sono più, non sono cadute per vetustà, ma :

Sono cadute perché abbandonate. L’assenza di periodica manutenzione, comportava che il trascorrere del tempo o gli insulti delle intemperie, rompessero o anche solo spostassero una tegola : l’acqua piovana che penetrava attraverso questa breccia, faceva in pochi anni marcire la struttura di sostegno (tutto legno) ;

sono state demolite per far posto a fabbricati di diversa natura e con diversa destinazione.

 

Il tipo di copertura in tegole, con i necessari, accentuati spioventi che la dimensione comporta, hanno giustamente valso a queste costruzioni l’appellativo di “ baracche “.-

 

Da qui, alle donne (tante) che vi lavoravano, quello di … “ fimmini i barracca “.-

 

Ripeto, e confermo : appellativo tutt’altro che dispregiativo.

 

Mi permetto di aggiungere allo splendido scritto del caro sig. Ezio, il modo dire dialettale, che come me credo ancora tanti usino, “un cuofiniu di fissarii”.