di Massimo Ristuccia
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Flaccovio Editore 1951
Ristampa anastatica
VULCANO
Le foto
Il paesaggio è sempre vario e mosso. I colori, nelle tonalità più accese, creano dei violenti contrasti di neri e di bianchi, di rossi, di gialli e di verdi, cui s’intona l’intenso azzurro del mare. Visioni rare, di una bellezza selvaggia e ancora incontaminata, che parlano all’animo un linguaggio di sottili suggestioni.
Illustri sono i nomi di coloro che, in ogni tempo, si occuparono di Vulcano. Ne parlo Aristotele con ampiezza di particolari e ne scrisse Plinio, narrando come l’isola, sorgendo dal mare, avesse provocato una grande strage di pesci. Anche Tucidide si riferisce a Vulcano, ricordandone l’ininterrotta attività eruttiva. Altri, meno noti, si soffermano su una data, quella del 5 febbraio del 1444, quando una terribile eruzione sconvolse le Isole.
Non era ancora l’alba; alte fiamme e smisurati massi furono eruttati in quantità, e le Eolie e la Sicilia intera ne furono scosse.
“Da cinque giorni in quest’isola vulcanica a mezz’ora di barca da Lipari.
Il mare luccica da ogni parte, chiuso da ogni parte fra rupi nere, ritte, col le corna; dai crepacci, che si aprono mollemente e in silenzio, fuma lo zolfo; una spiaggia è tutta di zolfo, e l’acqua che la bagna va bollendo; nell’interno dell’isola, la terra è arida e nerastra, le canne vi nascono già fradice, il verde delle vigne è sospetto come il colorito dei febbricitanti.
Il corvo svolazza a uncino sulla campagna, e di tanto in tanto precipita come un’ancora che si sia staccata dalla catena.
Quest’isola ha una storia singolare.
I Borboni le regalarono a un signore inglese che non volle mai abitarla.
Mandò in sua vece sua un amministratore, un certo Harley, se ho capito bene il nome, un uomo gelido e decadente che sguinzagliò subito per tutta l’isola dei cani feroci il cui urlo e sgretolare di denti teneva al largo qualunque estraneo.
Si fece costruire un palazzo neoclassico, con portici e colonne, e spianò dei viali lunghissimi, per i quali, ogni pomeriggio, passava tintinnando con la quadriga di cavalli neri.
Era un uomo inospitale, e stabiliva immediatamente, fra sè e gli altri, una corrente di dispetto.
I cani, accarezzati dalla sua mano, lievemente pelosa e sempre con le dita strette, si facevano più feroci, come gatti strofinati contropelo; i barcaioli rispondevano al suo sguardo con la promessa di diventare il meno umani che riuscisse possibile alla loro indole mediterranea; i cavalli, appena egli li sfiorava con la frusta, s’abbassavano sui garetti, e volavano con il visibile intento di buttarsi a chiodo nel mare, all’orlo del quale però un urlo secco del padrone li arrestava e immobilizzava come simulacri.
Un pomeriggio, i due figli di Harley, nonostante il divieto del padre, presero una barca e salparono per Lipari.
Il mare era furiosissimo, e l’odore dello zolfo, sbattuto giù dal vento, irritava le gole dei sempre esacerbati abitanti dell’isola, uomini o animali che fossero.
D’un tratto, la barca dei giovani Harley salì al cielo e ripiombò capovolta.
Harley, avvertito dai servi, era già sulla riva, con le braccia conserte e il frustino sotto l’ascella. I pochi marinai presenti, ansiosi di portare aiuto ai naufraghi, tirarono rapidamente e faticosamente un lungo barcone fuori della sabbia e lo spinsero fra gli urti spaventosi del mare.
Ma Harley li fermò con lo sguardo.
“No’, disse, ‘no!…”
I marinai mogi mogi ritirarono la barca sulla sabbia, si fecero il segno della croce e diedero le spalle al mare, a cui invece Harley continuava a stare rivolto. Di tanto in tanto gettavano una sbirciatina sul viso di lui, cercando di leggervi cos’andasse accadendo ai due sciagurati rimasti in preda alle onde.
Ma il viso del padrone era impassibile, gli occhi vitrei non specchiavano nulla, il naso diritto sembrava, come sempre, vuoto d’aria e di respiro.
D’un tratto, una smorfia di dispetto vi si disegnò come un fulmine.
Harley si volse, salì con un salto sulla quadriga, frustò i cavalli e disparve.
Un minuto dopo, arrivarono stremati, zuppi, seminudi, pallidissimi, i due giovani figli.
La notte, il palazzo rimaneva illuminato: con l’intensità e la costanza di chi si applichi a uno studio, Harley beveva; ogni tanto, veniva sulla terrazza e s’appoggiava alla balaustra, perfettamente immoto, lasciandosi penetrare dal silenzio del mare e del cielo come dal gelo necessario al suo cuore freddissimo.
Un giorno però, mentre egli sedeva solo solo alla sua lunga tavola, i cani emisero un gemito: poco dopo, un crepaccio si aprì nel pavimento e un soffione di zolfo riempì la stanza di puzza e di luce verdastra.
Subito il soffitto s’inclinò, le colonne si contorsero, un fumo intollerabile avvolse ogni cosa.
Il cuore fa dei brutti scherzi. Per sessant’anni, il cuore di Harley era stato coperto di gelo: d’un tratto, esplose in un sentimento di paura.
Tutti gli animali che tremano, senza il soccorso e i freni della ragione, senza che un ricordo, una parola, un’idea venga a salvarli, ebbero in quest’uomo il peggiore esemplare di se stessi.
Harley fuggì a testa bassa verso la riva, si cacciò in una barca, respingendo a colpi di remo i cani che volevano seguirlo e di cui egli aveva ormai un misterioso fastidio come di complici pericolosi, e, remando col fiato tra i denti, sempre a testa bassa, s’allontanò verso Lipari.
Non volle mai più tornare a Vulcano che vendette a tre cittadini di Lipari.
Di questi, due dovettero contrarre gravi debiti per procurarsi la somma richiesta da
Harley. Dopo pochi anni, scadenze e interessi li oppressero a tal punto che furono costretti a svendere le loro due parti a un certo signor Fav… Questi era un siciliano ricco, pigro e pieno di pregiudizi.
Per lui era importante possedere: mettere il proprio nome su una distesa di terra. Le cose disonorevoli erano due: vendere, perché voleva dire trovarsi in cattive acque; e coltivare eccessivamente le proprie terre, perché voleva dire spremerle, avere bisogno, supplicare alberi ed erbe di fargli la carità di una rendita straordinaria.
Con queste leggi, applicate con tanto scrupolo che egli non solo non coltivò eccessivamente le sue terre, ma non le coltivò affatto, il signor Fav. visse e morì.
Oggi le proprietarie di due terzi di Vulcano sono due signorine anziane. I crateri di Vulcano sono due: ciascuna signorina Fav. ne possiede uno, con tutto il territorio circostante.
Non vogliono vendere e non vogliono coltivare. In questa terra arida, basta scavare per una profondità di quattro metri , come ha fatto un animoso italo-americano, il signor Ferlazzo, e l’acqua zampilla
Tre mesi di lavoro intenso, e quest’isola infernale sorriderebbe.
Ma qui non si coltiva quello che si possiede, né si vende quello che non si vuole coltivare.
Le due padrone abitano a Lipari e le sere d’estate guardano da lontano i loro crateri.
‘E’ il tuo che fuma?’ dice una sorella all’altra.
‘Si, è il mio. Ma mi pare che anche il tuo mandi puzza di zolfo’.
Seggono al balcone di una casa modesta e poggiano la fronte contro la ringhiera di ferro.
Non sognano, non sperano, non temono, non hanno bisogno di nulla.
In un simile stato, il sonno arriva subito: basta reclinare la testa e il cervello, vuoto di pensieri, si riempie di una tenebra densa.
Così s’addormentano. A distanza, dietro le loro palpebre abbassate, i due loro crateri si vanno riempiendo di luce lunare che, mista al verde e al rossigno della pietra, riverbera intorno una luce da oreficeria del diavolo”.
VITALIANO BRANCATI