di Massimo Ristuccia
Grazie alla Biblioteca libertaria Armando Borghi di Castel Bolognese ho avuto modo di consultare due libri su Leandro Arpinati:
“Arpinati Mio Padre”, scritto dalla figlia Giancarla Cantamessa Arpinati, che nel capitolo 9 parla del confino a Lipari. Tra l’altro dal racconto si può fare un riferimento visivo su alcuni ricordi con le foto gentilmente avute dall’associazione Spazzoli, su questo ci tornerò.
Ed ancora, il libro di Agostino Iraci “Arpinati l’oppositore di Mussolini”, che nel capitolo VIII a pag. 224 cita: “”Arpinati fu tradotto, ammanettato, da Bologna a Napoli, poi a Palermo, dove fu chiuso nell’orrendo carcere dell’Ucciardone; e infine a Lipari. Si sistemò alla meglio in una casupola (che come mi dice l’amico Pino La Greca era a Marina Corta sopra il Bar Gabbiano), insieme con altro confinato, Gnocchi, e cominciò per lui quella triste successione di giorni e di notti senza speranza, che non è più vita da uomini, ma tormento tanto più penoso quanto più alto è l’animo. Cercava di distrarsi, studiando il latino e l’astronomia: anche a Lipari, nelle notti serene, il cielo è pieno d’incanto e può dare un po’ di conforto. Egli, allora, ricordava il detto di Emanuele Kant: ”il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me”; e doveva pensare che egli era lì per avere voluto osservare la legge morale…
Egli si tormentava non tanto per la sua sorte, ma per la sua famiglia. E faceva a sé un severissimo esame di coscienza; gli rimordeva di avere talvolta, sia pure per fini che sembravano giustificarlo, avere agito contro la libertà; e perciò il 28 ottobre 1935, scriveva al suo amico Mario Ghinelli queste desolate parole: “”Viene il giorno in cui t’accorgi che quanto facevi e credevi meritorio era delitto. Delusione e disgusto, da quel giorno, t’invadono lo spirito. Unico conforto, l’espiazione””. Tremende parole, altra prova dell’altissima nobiltà di un animo eccezionale.
Arpinati, come abbiamo detto, era povero. Le scarse rendite di Malacappa, ancora più scarse per l’assenza di lui, non bastavano a pagare le annualità del debito fatto per l’acquisto della proprietà, e Arpintati comprendeva che la sua famiglia faceva grandi sacrifici per potergli mandare quei pochissimi fondi, con i quali faceva fronte alle sue ridottissime necessità. Perciò a un certo momento dovette finire col chiedere alla Direzione della Colonia di corrispondere anche a lui il sussidio giornaliero di cinque lire, che era concesso a tutti i confinati bisognosi. Di tale sua richiesta fu informata Roma, e tre giorni dopo gli fu chiamato dal Direttore, che disse di dovergli consegnare un sussidio di diecimila lire, concessogli dal Duce.
Arpinati rifiuta: “”io non chiesto niente al Duce. Io ho chiesto alla Stato quello che esso dà a tutti coloro, che si trovano nelle mie condizioni””. E il Direttore, che, malgrado il suo incarico, era un buon cuore di meridionale: “ e perchè fate così? Il Duce è buono, scrivetegli una lettera, ed egli vi rimanderà a casa”, e cosi via. Ma Arpinati: “ dica al Duce che non gli chiedo nessuna grazia. Gli chiedo ancora, e soltanto, di sapere che cosa ho fatto. Del resto, se sono qui al confino è una giusta punizione, perchè sono stato fascista, e ho preteso di continuare a ragionare col mio cervello e con la mia coscienza””.
E così fu peggio di prima. Il Direttore riferì a Roma che il sussidio era stato rifiutato; Bocchini rispose ordinando che la vigilanza fosse sempre più severa. Però il sussidio di cinque lire al giorno fu accordato.
Tornerò con altro piccolo stralcio sul libro della figlia di Arpinati.