Oltre al noto San Calogero, una crescente quantità di monaci influenzò profondamente la vita locale. Alcuni documenti suggeriscono che la popolazione di Lipari fosse talmente esigua da identificarsi con la comunità monastica. Tuttavia, incursioni saracene, come indicato in un manoscritto del IX secolo, portarono a un drastico declino della popolazione monastica, tanto che intorno all’838 rimasero solo pochi monaci sull’isola desolata. Nonostante ciò, questi monaci superstiti contribuirono a mantenere una fragile continuità di vita a Lipari fino al 1085.
di Giuseppe Iacolino
Gente delle Eolie (Aldo Natoli Editore)
Attraverso i tempi bui della nostra storia
Ipotesi sul monachesimo siculo-greco in Lipari dal VI al IX secolo
Calogero non fu in realtà il solo monaco che in quei tribolatissimi tempi fece stanza a Lipari. Fu, certo, I’unico che di sè lasciò larga rinomanza. Ma prima di lui probabilmente altri c’eran venuti a stare, e, dopo di lui, i monaci di Lipari s’infittiscono, diventano una legione, si fanno insomma cosi tanti da conferire peculiari caratteristiche anche alla vita collettiva locale. Taluni codici anteriori al Mille la popolazione stessa di Lipari la identificano addirittura con la massa ingente di monaci che colà dimoravano. II manoscritto Lugdunense N° 30, accennando di scorcio ai residenti nelI’isola agli albori del secolo IX, cosi dice: «…episcopum loci et clerum cum plebe seu monachis…». C’erano dunque- quando qui da noi si facevano sentire le frequenti rovinose puntate dei vascelli islamici – il vescovo locale, il suo clero e il popolo, ossia i monaci. Questa nota ci induce a credere che la popolazione di Lipari doveva essere cosi sparuta, squallida e malridotta da trovar conveniente condurre la sua esistenza all’ombra dei monasteri e in simbiòsi coi monaci stessi, così come del resto s’usava benché in forme e modi assai più profittevoli in quelle campagne dell’Italia continentale o della Francia ove s’andavano insediando le comunità benedettine. Attività agricola associata, possiamo dire, al solo fine di assicurare agli uomini un minimo di sopravvivenza. Un altro documento di Autori Lugdunensi, per indicare che intorno all’anno 838 Lipari era rimasta pressochè deserta, c’informa testualmente: «…relicti Sunt tres sive quattuor monachi…». Il che vuol dire che in tutto nell’isola circolavano tre o quattro anziani monaci che per l’età avanzata – cosi precisa ancora il codice -o per compassione o per disprezzo i Saraceni vi avevano lasciati sopravvivere. Gli altri, tutti ammazzati o deportati. Tempi amari, non c’è che dire. Cosi i Liparoti toccano il fondo di quella prostrazione e di quella lenta consunzione che s’era iniziata nel secolo V e che si sarebbe appunto conclusa verso l ‘838 col ritiro dei rari cittadini superstiti nella riposta depressione di Vulcanello, come si sarebbe detto più tardi, Piana dei Greci. Furono codesti individui che di generazione in generazione e sino al 1085, come vedremo assicurarono nell’isola una seppur tenue e precaria continuità di vita e di umano consorzio. Quanti fossero quei monaci nel momento culminante del loro addensarsi non possiamo assolutamente precisarlo. Ma riteniamo che il loro numero – si tratta di mera supposizione – dovette superare le due centinaia. Quanti i monasteri? E in quali località dell’isola sorsero?
li accanto, il Convento. Tutt’intorno correva una muraglia di cinta, intramezzata di torrioni, che nei critici momenti di panico accoglieva la popolazione della città bassa. Sarà entro i limiti di questa panoramica, ivi compresa la marina di Portinenti che nel IX secolo si verificheranno i fatti relativi alla dispersione delle “sacre ossa” dell’Apostolo Bartolomeo , al loro miracoloso rinvenimento da parte dei monaci e al successivo trafugamento da parte di marinai amalfitani agli ordini del principe di Benevento, Sicardo. Fu pure in quel torno di tempo- lo ripetiamo ancora – che i pochi isolani, che riuscirono a sottrarsi all’eccidio perpetrato dagli Infedeli, si andarono a confinare nella solitaria conca di Vulcanello dove ci stava il piccolo monastero di Sant’Andrea e la chiesetta dell’ Incarnazione del Verbo. Essi parlavano il greco, e il greco seguitarono a parlare i loro figli e i figli dei figli. Quando poi, verso il 1085, a Lipari giungeranno i Normanni liberatori di lingua franco-latina, a quella conca verrà assegnato un nuovo toponimo, Piana dei Greci, a motivo dei grecofoni che colà si troveranno stanziati. Ma questi sono accadimenti di notevole interesse per la nostra storia locale. e ciascuno di essi meriterebbe approfondimenti specifici ed esclusivi. Intanto ci pare di avere a sufficienza dimostrato che, quando si ha difficoltà nell’imbastire certe pagine di storia buia, un po’ i monaci, un po’ i Santi- e, perché no, un po’ anche i diavoli – una mano te la danno. E come !
Qui siamo in grado di dare una soddisfacente risposta, ma occorre che il lettore ci segua con la consueta diligenza mentre noi prendiamo le mosse piuttosto da lontano. Si sa che quando mancano le fonti di diretta documentazione e ci si vuole comunque accostare ad una sommaria conoscenza di certi oscuri problemi storici non c’è altra scelta da fare se non quella di attingere a spunti d’informazione collaterale e generica. Trascorsi quasi cent’anni dalla disastrosa guerra goto-bizantina (535-553) la Sicilia, che ormai era rientrata nell’ambito territoriale dell’Impero di Bisanzio, riuscì a godere di alterne fasi di prosperità nettamente influenzate dall’eco nomia e dalla cultura orientale. II fenomeno si avvertì, più cospicuo che altrove. nella fascia ionica e in buona parte in quella tirrenica. Momenti culminanti si registrarono nell’arco del secolo VII, e tutto ciò malgrado la realtà dell’ora e le prospettive avvenire fossero poco rassicuranti a motivo della incipiente minacciosa presenza degli Arabi nel Mediterraneo.
Più ancora di quello economico fu il fatto culturale che ebbe in Sicilia prodigiose manifestazioni di carattere permanente ed evolutivo e, specie nel triangolo Taormina-Messina-Cefalù, mise profonde radici grazie alle intermittenti correnti migratorie di religiosi e di laici di lingua e nazionalità greco costantinopolitana. S. Calogero – non si dimentichi – era venuto anche lui da Costantinopoli.
Nel processo di bizantinizzazione della provincia sicula, poco dopo il 553, ebbe un notevole ruolo l’insediamento di alcuni monasteri – voluti e favoriti dalla corte imperiale i quali andavano soppiantando l’importanza dei circa venti monasteri latini preesistenti, di cui almeno sei erano stati eretti da papa Gregorio Magno (590-604) in vasti poderi appartenenti alla Chiesa di Roma: «In rebus propriis sex in Sicilia monasteria congregavit». Sin dal 541 esisteva in Messina una comunità benedettina fondata, pare, da San Placido. Quanto a Lipari, possediamo un riscontro documentario dal quale si desume con ragionevole certezza l’esistenza, anteriore al 590, di un monastero, quello di Sant’Andrea, posto al centro dell’isola nostra nella piana di Vulcanello. Ce ne dà notizia il papa Gregorio Magno il quale, con una sua lettera non datata, ordina all’abate Giovanni di Reggio Calabria di condurre una visita ispettiva nel «monasterio sancti Andreae quod iuxta Vulcanum est positum». A codesto monastero, come meglio diremo appresso, è legata l’origine dell’odierna chiesa dell’Annunziata. All’aprirsi del VII secolo, dopo che i Persiani, tra il 611 e il 618, sottrassero a Bisanzio le provincie di Siria, di Palestina e d’Egitto praticando severe discriminazioni nei confronti dei greci colà residenti e che in Siria costituivano quasi la metà della popolazione, stuoli di monaci e di ecclesiastici trovarono asilo in Sicilia e qui istituirono a loro volta nuovi cenobi. Nel 629 l’imperatore Eraclio (610-641) riuscì a riprendere ai Persiani le tre province. Ma tra il 632 e il 637 gli furono ritolte dagli Arabi; e ciò mentre al confini settentrionali dell’ Impero premevano fortemente gli Avari. Tuttavla I’imperatore, per quella tendenza di corte ormai tradizionale d’ingerirsi negli affari di culto, trovò il tempo di interessarsi dell’unità religiosa dei suoi sudditi imponendo nel 639 la credenza monotelitica, una delle tante sottigliezze bizantine sevondo la quale in Cristo ci sarebbe una sola volontà, quella divina. Di qui un rincrudimento delle persecuzioni contro i cattolici ligi alla confessione romana, e queste persecuzioni fecero prendere a nuovi di monaci la via per I’ltalia.
Loro prima tappa obbligata, come da sempre, era la Sicilia orientale: qui gran parte ci rimanevano, gli altri o si stanziavano in Calabria, o prendevano la strada per Roma. Si pensi che in seno al Concilio Lateranense del 649, in cui fu condannato il monotelismo, si registrò una forte presenza di teologi orientali i quali diedero al dibattito un efficace contributo di dottrina.
Da parte della burocrazia di Costantinopoli i monaci di Sicilia – come del resto quelli di Calabria e del Lazio- erano lasciati campare in relativa tranquillità e, sebbene fossero sovente discordi fra loro su questioni teologiche -e forse anche per questo- nel complesso innalzarono il tono della cultura isolana a tal punto che la stessa Chiesa di Roma, avvertendo la sua inferiorità dottrinale nelle dispute giuridiche e religiose con il Patriarcato di Costantinopoli, dal 678 al 701 quasi ininterrottamente elevò alla tiara pontificia ecclesiastici nativi di Sicilia o di formazione greco-sicula : Agatone, Leone II, Conone, Sergio I . In quel torno di tempo la città di Siracusa, splendida e rigogliosa nei suoi commerci (più tardi diverrà un prelibato boccone per i razziatori mussulmani) fu prossima ad esser promossa, per volontà dell’imperatore Costante II, nuova capitale dell’ Impero d’Oriente in sostituzione di Costantinopoli che troppo da vicino era allora minacciata dall’avanzata degli Arabi . Intanto non si arrestava la corrente dei profughi orientali verso le nostre contrade. Chè anzi, scatenatasi la lotta iconoclastica nel 726 per iniziativa del. l’imperatore Leone Isaurico (717-741) (Costui pretendeva abolire il culto delle sacre immagini proprio per togliere alle numerosissime comunità monastiche bizantine il principale strumento di suggestione e di potere sulle masse popolari), il monachesimo siculo-greco venne ulteriormente rafforzandosi mediante nuove fittissime immigrazioni che si arrestarono solo allorquando, nel IX secolo, la Sicilia cadeva quasi interamente sotto il dominio degli Arabi. Ma già nel secolo VIII in Sicilia e in Calabria si potevano contare oltre mezzo migliaio di stazioni monastiche, le quali in misura assai rilevante si addensavano nelle aree prossime allo stretto di Messina. Ve ne erano in gran parte di basiliane, ma se ne annoveravano di appartenenti a diversi altri ordini, compreso il più recente, quello degli Studiti che erano i figli spirituali di San Teodoro Studita (759-826). Occorre qui ricordare che la Chiesa sicula, pur essendo sentimentalmente e per tradizione legata a Roma, ufficialmente dipendeva allora dal Patriarcato di Costantinopoli, il quale si pre0ccupava di assegnare alle diocesi isolane vescovi di formazione orientale malgrado questi non sempre restassero fedeli alle direttive di Bisanzio. Anche Lipari, intorno al 787, ebbe come vescovo un certo Basilio, di chiara origine siculo-orientale, il quale fu presente al Concilio Niceno II tenuto in quell’ anno. Del fatto poi che anche qui nella nostra isola di Lipari ci fossero in quell’epoca tanti monaci troviamo una inequivocabile attestazione proprio negli scritti del già citato San Teodoro Studita che personalmente ebbe a subire persecuzioni e carcere da parte degli imperatori. In una sua lettera dell’809 egli, lamentandosi delle malvessazioni cui erano esposti i suoi confratelli, fa espressa menzione di Lipari come luogo di esilio e di detenzione di monaci dissidenti o troppo zelanti nella fedeltà al pontefice romano: «Cur in Lipara insula, ultra Siciliam posita fratres nostri in custodia detenti? (Perché nell’isola di Lipari, situata al di là della Sicilia, vi sono confinati i nostri confratelli?). Da questo prezioso documento è facile argomentare che Lipari dovette essere sede di uno o più monasteri tenuti da monaci non certo del tutto avversi al credo di Costantinopoli; tant’è, infatti, che ad essi, come crediamo, venivano affidati in custodia monaci deviazionisti, come oggi si direbbe, o del dissenso. particolarmente qualificati, ai quali non si dava, come a tanti altri, la facoltà di emigrare liberamente dove volessero.
Abbiamo dunque diversi indizi, diretti e indiretti, che manifestamente ci offrono la certezza che anche a Lipari tra il secolo VI (ricordiamo Calogero) e il secolo IX, fu attinta dalle correnti migratorie dei monaci d’Oriente. Ci è impossibile precisare con esattezza i tempi dei vari insediamenti monastici nell’isola, ma, seguendo alcune chiare indicazioni toponomastiche e certe vaghe tradizioni che ancora resistono, cosi crediamo di poterne individuare almeno i punti di dimora: quello di S. Nicolò in cima all’omonimo promontorio, quello di Quattro nani. quello dell’Annunziata e, infine, quello della contrada Maddalena nei pressi della chiesetta di S. Bartolomeo detto «extra moenia.
Contemporaneamente all’impianto e alla sussistenza di vere e proprie comunità religiose in Lipari è probabile che in alcuni punti dell’isola ancora resistessero, per tutto il VI secolo, forme di vita eremitica calogeriana. L’illustre archeologo Paolo Orsi, infatti, non è alieno dal suppore che sul colle di San Nicolò, a sud del Portinenti, precisamente nell’ipogéo attiguo al sacello, abbia fatto dimora un qualche «meschino calogero bizantino» il quale vi avrebbe importato il culto di S. Nicolò di Mira, «santo greco per eccellenza» (+347). Un culto nuovo, fresco di zecca.
Si pensi che il nome di S. Nicolò allora (siamo probabilmente nel sec. VI) era pressocchè sconosciuto nell’Europa occidentale dove invece troverà larga risonanza dopo che, nel 1087, Bari si farà giungere dall’Oriente le di lui reliquie.
L’attuale chiesetta di S. Nicolò in Lipari, che si potrebbe far risalire al XVII secolo, altro non sarebbe se non l’ultimo dei tanti rifacimenti cristiani di un originario tempietto pagano; il che lo stesso Paolo Orsi desume da una cornice classica in pietra che fa da architrave all’ingresso e da altri massi murati nei sedili attorno al sagrato.
Che in quel di Quattropani i monaci orientali ci siano giunti in ranghi compatti e per lungo tempo vi abbiano esercitato un’esclusiva influenza è ampiamente dimostrato dalla ricca toponomastica di schietta provenienza levantina che lassù ancora perdura. La campagna di San Basile o Sammasili, ad esempio, che è tutta quella vasta contrada che s’estende lungo la via che porta alla Chiesa Vecchia. Colà doveva esserci il loro cenobio di cui oggi non esiste più traccia. Ma di una «Ecclesia di San Basile» si fa menzione in un documento del 1608 ove leggesi: «Qualmenti li anni passati pretendono volere dare in affitto li olim Giurati di detta Città (di Lipari ) lo terreno imboscato de lo Castellaro detto di San Basile et la Valle delli pira a particulari Cittadini… nello quale terreno ci è la Ecclesia di San Basile..»’. Occorre intanto tener presente che i monaci bizantini ci tenevano a diffondere in Occidente il culto dei loro Santi: in fondo, come abbiam detto, anche questo costituiva un valido strumento di affermazione del loro prestigio; e a Lipari, ovei diavoli la facevan da padroni, una nutrita schiera di paladini celesti veniva volentieri recepita al fine di contrastare le forze del Maligno. C’era, poi, negli intellettuali, o dottori o teologi, d’Oriente – e ciò prima ancora che la Chiesa Romana si sensibilizzasse a tali questioni un che di ostinato e di paziente che li induceva a classificare minutamente le gerarchie degli Angeli e a sillogizzare sui misteri del Cristo e sulle peculiarità e i privilegi relativi alla persona della Vergine Maria.
Orbene, prescindendo per il momento dal culto della Madonna che un oscuro eremita fece germinare in Val di Chiesa di Salina e i frati di Sant’Andrea su un rialzo periferico della depressione di Vulcanello in Lipari, per opera di quei monaci nell’area di Quattropani si affermarono le devozioni dei SS. Quaranta, di S. Raffaele e di S. Michele Arcangelo. E ognuno di codesti nomi di certo indicava, oltre che un centro religioso, un nucleo di attività campestre o di bonifica,
Pochi sanno che lungo la pendice che si protende verso Acquacalda c’è una località che ancora porta il nome dei Santi Quaranta , martiri di Armenia finiti sotto una persecuzione del IV secolo, la cui fama fu diffusa in Occidente
proprio dai monaci bizantini. A Roma, presso la Chiesa di S. Maria Antiqua. esistono i ruderi di un oratorio del VII secolo dedicato ai Santi Quaranta. Quel culto di Roma fu coévo al nostro.
Nel versante Sud di Quattropani in prossimità di Pianoconte si sviluppò il culto di S. Raffaele Arcangelo, anch’esso di chiara marca orientale; ne sopravvive oggi un vago ricordo negli avanzi di una chiesetta, di costruzione forse settecentesca, intitolata appunto a S. Raffaele.
Anche il Monte Sant’Angelo fu cosi battezzato dai monaci greco-siculi. Sul culmine di esso come abbiamo appreso da testimoni oculari ormai scomparsi – nel secolo scorso affioravano ancora cospicui resti di una chiesuola nella cui nicchia di fondo scorgevasi la statua lignea di S. Michele Arcangelo, di fattura seicentesca, la quale fu poi trasferita nella chiesa dell’Annunziata. Qui all’Annunziata il sito felicissimo dovette affascinare altri mistici del VI secolo, fondatori, come abbiamo di già notato, del monastero di Sant’Andrea. Sopra i ruderi di un tempio pagano, come si tramanda, essi edificarono pure la chiesa cristiana che credibilmente sin dall’origine fu intitolata al Mistero delI’Incarnazione del Verbo e che, nell’ultimo scorcio del XVI secolo, sarebbe stato detto dell’Annunziata. Fu, questo, un complesso murario che, ristrutturato e ampliato assai volte in tempi successivi, conserva ancora – anche per la singolare sagomatura della gradinata ansiosamente slargantesi fino alla conquista dell’arioso sagrato — caratteristiche indefinibili evocatrici di lontanissime passioni ascetiche. Del cenobio e della sua ubicazione non si scorge alcun indizio. Una terza colonia monastica, senz’altro la più cospicua e fors’anche la prima in ordine di tempo (ma anche la più disagiata perché immediatamente esposta all’insidie dei pirati), sarebbe da individuarsi in quell’area che sin dall’epoca del vescovo S. Agatone costituiva il centro del culto cristiano nella nostra isola e comprendeva il territorio che dall’attuale chiesa di S. Giuseppe si estende fino al costone declinante sulla baia di Portinenti. Insomma, la contrada della Maddalena.
Faceva allora spicco su quell’alta fascia costiera, tra il verde dei pampini e l’ampia distesa del sottostante mare, la residenza del vescovo, il tempietto di S. Bartolomeo- ove riposavano le spoglie dell’ Apostolo e di Agatone