L’ISOLA DI VULCANO
da LE VIE D’ITALIA N. 11 DEL 1954 DI Ludovico SICARDI.
Dopo Stromboli, è l’unica dell’arcipelago delle Eolie che presenti ancora notevoli fenomeni vulcanici.
Le isole Eolie appaiono ad una ad una doppiando il capo di Milazzo sulla costa tirrenica della Sicilia. A settentrione l’alta cuspide triangolare di Stromboli con il suo pennacchio di fumo, più in qua Panarea con Basiluzzo quasi sdraiate sul mare, di fronte le tozze ombre di Vulcano e di Lipari, dietro le quali si nasconde Salina, che comparirà più tardi. Alicudi e Filicudi sono lontane, restie a mostrarsi, confuse nello sfondo indefinito della foschia.
Dietro di noi, i monti della Sicilia si appiattiscono in una striscia che diventa sempre più sottile e grigia, su cui predomina la mole dell’Etna. A questa le Eolie paiono guardare, per la comune discendenza del fuoco nascosto della terra: invero queste non superano il mare che per meno di mille metri, ma nella profondità sottomarina ne acquistano rapidamente altri duemila. Così aggrappati negli abissi, questi monti spingono fuori guardinghi le loro cime, divengono isole e occhieggiano alla sorella maggiore trattenendo entro se stesse l’impeto della forza materna. Stromboli, più audace, sbuffa ancora i i suoi colpi di fuoco disperdendo le ceneri al vento e Vulcano lancia il vapore delle sue fumarole.
Le otto isole non sono distribuite a caso, ma si irradiano su tre diverse direzioni, quasi con eguale angolo, da un punto poco più a nord dell’isola di Lipari. Qui la crosta terrestre sembra aver ricevuto dall’interno tale urto da restarne spezzata, con la conseguenza di quel caratteristico irraggiamento di fratture sulle quali sono poi sorti i coni vulcanici delle Eolie. Oggi le manifestazioni dell’attività vulcanica sono concentrate esclusivamente a Stromboli e Vulcano, agli estremi cioè delle due radiali di levante, mentre nelle altre isole non appaiono che sporadiche sorgenti termali e solo Panarea ha una striscia di deboli fumarole.
Quando rosseggiano le lave
A Stromboli, da alcune delle numerose bocche di solito aperte nella voragine craterica, la lava, quasi sempre visibile, affiora e rosseggia. Di notte riverbera la sua luminosità nella massa dei gas e dei vapori che l’abbandonano e che nell’impeto dello scarico trascinano con spettacolare veemenza frammenti incandescenti di magma. Quando la forza del vulcano si accresce, il cratere è soggetto a parossismi che scuotono tutta l’isola e la lava si riversa rapidamente in mare lungo la famosa Sciara del Fuoco. Ma dopo pochi giorni se lo sfogo non ha provvisoriamente fiaccato il vulcano, ecco ritornare ogni cosa nel ritmo più pacato dei quotidiani lanci di scorie luminose.
A Vulcano invece la calma dell’ampio cratere è appena rotta dal rumoreggiare delle fumarole dalle quali sfuggono nubi bianche di vapore commisto a gas acutissimi di odore. Solo a distanza di decenni il vulcano attraversa periodi esplosivi durante i quali però, a differenza di quanto avviene a Stromboli, il magma non appare luminoso e ribollente. Infatti la bocca resta completamente chiusa come da un tappo che ogni tanto la forza dei gas prementi dall’interno spezza e frantuma in cenere, lapilli e proietti più o meno voluminosi. Si espande allora una grossa nube scura tra cui rosseggiano i frammenti del magma sottostante appena pastoso, divelti e asportati dalla massa gassosa nel suo impetuoso irrompere. Subito dopo il crostone di chiusura si riforma, salvo riaprirsi più tardi sotto nuovi sforzi. A Vulcano infatti il magma è talmente denso e vischioso, già così relativamente freddo, che difficilmente riesce a raggiungere la superficie e ancor più a traboccare. Di solito, come ora, rimane incuneato più o meno profondamente, lasciando che i gas, pur essi provenienti da ignote profondità, l’abbandonino e proseguano da soli verso l’alto, sfociando liberamente all’aperto.
Il richiamo dell’Australia
Vulcano è l’isola più vicina alla Sicilia. Il postale, che ogni mattina parte da Milazzo, prima di giungere a Lipari, vi fa scalo e ritorna nel pomeriggio. Non molto tempo addietro, il servizio faceva scalo soltanto a Lipari, rendendo arduo il collegamento di Vulcano con le linee di navigazione delle Eolie. Alla facilità delle comunicazioni si aggiunge oggi la possibilità di un soggiorno confortevole per due appassionate iniziative locali: quella di Giulio Giuffrè sulla riva del porto di Levante presso una salutare sorgente e l’altra dei Favaloro a mezza via tra le insenature di Ponente e di Levante.
I campi ancora sabbiosi lasciano crescere una vite a basso cespuglio, ma capace di un vino molto generoso; gli orti vivono soprattutto dell’umidità un poco calda del sottosuolo; nel mare ci sono ampie possibilità di pesca. Queste sono le risorse dell’isola, per il resto, è ampiamente fornita da Lipari e da Milazzo. Il turista insomma può viverci tranquillamente, pensando solo a percorrere l’isola a piedi o sul dorso di mansueti muletti per i facili sentieri che legano tutte le località e comodamente portano alla cima fumosa del Gran Cono e tra gli spenti crateri del Piano.
Nell’isola non vivono che poche centinaia di persone ospitali e cordialissime, divise tra il Porto di Levante e il Piano, non ancora del tutto insensibili al richiamo dell’Australia che tanti ha strappato finora all’isola, offrendo aiuti più efficaci di quelli che il suolo e il mare di Vulcano possa dare.
Verso il Gran Cono
Sono innumerevoli le passeggiate che Vulcano offre ai suoi ospiti e con esse le impressioni più diverse. In rapide sequenze è un continuo mutar di visuali, nell’immediato profilarsi di ampie vedute o di scorsi: ora aspri e duri, quando predomina la roccia lavica irsuta, contorta, attorcigliata, sporgente fantasticamente tra le chiazze grigie delle sabbie; ora morbidi laddove nella terra dei crateri spenti ed esauriti s’immergono le radici di una vegetazione rigogliosa.
L’ascensione al cratere del gran Cono è la più bella ed emozionante. Lassù , appena a poche centinaia di metri di altezza, è l’orrido di una terra calda, fumante, squallida, frantumata da una forza ostinata e lacerante che riversa nubi di vapore con l’impeto di uno sfogo, ingentilito solo dalla varietà dei colori lucenti e purissimi che orlano i margini delle fumarole. Ma si è anche sotto l’immensità di un cielo che confina unicamente con l’orizzonte e di fronte alla vastità del mare che su quell’orizzonte spegne la sua sfumatura celeste.
Si abbandonano i campi della costa dove la vigna sembra timorosa d’agguantarsi alla terra, si lascia anche la ginestra, la sola pianta capace di irradicarsi nel terreno ancor tiepido e tra le sabbie che il vulcano ha sparso attorno, quasi per allontanare da sé ogni segno di vita, si comincia a salire sotto il rumore sordo delle fumarole che in alto sibilano tra candidi pennacchi di vapore. Il terreno si inaridisce, si ricopre di una sottile patina bianca e va sempre più scaldandosi: comincia qua e là a fumare. Si oscurano nella nebbia le più lontane isole dell’arcipelago, ma Salina e Lipari si disegnano minuziose. Tutti i particolari si accentuano fra luci e ombre nell’infinita gamma dei colori posseduti dal paesaggio vulcanico, dove in cruda mescolanza i rossi più accesi e i gialli più pallidi sono messi accanto alla volontà mutevole e capricciosa del fuoco. Tutto questo nella varietà del profilo costiero disegnato con la violenza dell’acquamarina spinta dalla furia del vento: tra le frane, gli scoscendimenti e le rocce, è una frangia di capi e di seni, cui fanno sentinella guglie rocciose e scogliere ossute, isolate nel mare, che devono subire per prime le frequenti collere del mare eolico.
Si attraversa la Forgia Vecchia, questo occhio ciclopico del monte che è solo un cratere avventizio apertosi probabilmente nei primi decenni del 1700. Di fronte è l’arco roccioso di Lentia il residuo forse del primo cono con il quale il Vulcano prese a formarsi e che in epoca più tarda dovette sprofondare in mare. Lo scarso avanzo del più vecchio edificio vulcanico sembra ora voler circuire il Gran Cono che si sta sviluppando proprio in quell’area di sprofondamento e che, se eventi più disastrosi non interverranno, finirà per ricoprire con un mantello di cenere e di lave l’ultima testimonianza del più lontano passato dell’isola.
A levante, invece, le più recenti vicende dell’isola sono illustrate dalla penisoletta di Vulcanello, formata da tre conetti l’un l’altro addossati quasi in un unico cumulo di cenere sopra una piattaforma lavica più ampia.
Al principio del II secolo avanti Cristo il mare batteva liberamente ai piedi del Gran Cono e si inarcava tra questo e la vecchia rocca di Lentia. Una serie di eruzioni inizialmente sottomarine crearono in duecento anni una nuova isoletta, Vulcanello, che solo nel 1500 finì per legarsi alla maggiore. Per quanto il gruppetto di questi tre coni sia formato di cenere e di scorie, solo a settentrione deve subire l’impeto del mare che cerca di smantellare la fragile costruzione con effetti visibilmente palesi. Nelle altre parti questo lavoro di demolizione viene rallentato dalla protezione della muraglia lavica contro la quale si spezza la violenza del mare.
Ma riprendiamo l’ascensione al gran Cono. Lasciato il cratere della Forgia Vecchia ci si sposta verso sud e costeggiando l’estremo lembo delle fumarole che in lunga fila orlano all’esterno la cima del vulcano sotto il margine di un ampio gradino. Tagliando la testata della colata lavica delle Pietre Cotte, l’unica di cui si può riconoscere l’origine storica e che appare simile a un vetro leggero, bolloso come una spugna, fragilissimo. La colata, relativamente stretta, rivela nelle sue stesse dimensioni la viscosità propria del magma del vulcano. Pare sia uscita dalla bocca di questo come trafilata, rigettata sulle pendici del cono e convogliata senza potersi liberamente espandere.
Oramai è breve e facile raggiungere l’orlo del cratere la cui voragine sprofonda d’un tratto sotto di noi, mentre ci appare di fronte, altrettanto improvviso, il Monte del Piano, tozzo come un tronco di cono, è, in realtà, un insieme di costruzioni vulcaniche addossate una all’altra, dell’ultima delle quali rimane lo sperone di Monte Saraceno. Oggi la conca del Piano dai suoi tre-quattrocento metri di altezza quasi strapiomba sulle azzurre profondità marine come un immenso vascello, disseminato dalle bianche e piccole case eoliche, abitate da alcune centinaia di isolani.
Nel fondo del cratere
Possiamo percorrere tutto l’orlo del cratere, giungere sulla sua punta più alta (m 386) all’assoluto dominio del più ampio e completo orizzonte, ridiscendere sul lato nord dove il vulcano sembra aver concentrato tutta la sua forza. Dalle fumarole, alcune tenuissime, appena rivelate nelle striature di zolfo sulle sottili crepe del terreno, alcune più grandi che dai 100 gradi si portano ai 200, ai 400 e anche oltre, dal terreno a fessure per diecine di metri come se un gran taglio spaccasse il margine del cratere da nord a sud, sfugge la massa gassosa. Ma la violenza si accompagna con manifestazioni di armoniosa bellezza e il timoroso senso che emana dalla misteriosità del luogo si attenua e si spegne nell’amministrazione degli effetti pittorici abbandonati da quella furia fuggente nell’ultimo istante del suo cammino terrestre. Sono larghe fasce gialle di zolfo a zone rosse o rosso brune, frammezzate da variopinte strisce di altri minerali; soffici grappoli che sfumano nelle colorazioni citrigne più delicate; festoni morbidissimi di Sali candidi come neve, che paiono ovattare sasso contro sasso, eguagliando le asprezze del terreno spezzato e ruinato tra i lembi delle visibili fratture.
Il cratere sventra la cima del monte per ottanta metri sotto la quota più bassa dell’orlo. Le pareti dell’imbuto non sono ovunque eccessivamente scoscese ed è quindi facile scendere e risalire. In pochi minuti, passando tra i detriti dell’ultima eruzione (1888-1890), si arriva al fondo caldissimo, biancastro, ricamato dalle incrostazioni variopinte dei minerali che trasudano dalla stessa terra, mentre da sottili tagli emanano leggere spire di vapore.
A settentrione, sull’alto della voragine, irrompono invece la messe di vapore delle fumarole della grande frattura. L’eco del fondo incupisce il sordo brontolio che è solo a spezzare l’immensa quiete di quella solitudine. L’aria, appena mossa, prima di permettere alla nube di dissolversi, l’agita, l’appiattisce, la distende, la rigonfia, la rituffa contro la roccia arsa giocando con la forza ignota e cieca che ha strappato quel respiro delle viscere stesse della terra. E la furia e la violenza paion spegnersi senza alcun ulteriore dispetto, vinte dalla semplice calma dell’aria e della luce.
Si di noi incombono le pareti fumanti e l’occhio azzurro del cielo aperto nel profilo della voragine. Noi si pensa alla soglia dell’Averno, ma certamente il mondo nostro di tutti i giorni si allontana assai, scompare più che non lo nascondano le pareti del cratere e diventa quasi inconcepibile la bellezza della natura rigogliosa, piena di luce e di colore, di fronte a quel paesaggio arido, sconvolto dal fuoco sotterraneo che potrebbe d’un tratto squarciare la montagna .
Anche il peregrinare attraverso un’isola ha la sua conclusione. A Vulcano è da coglierla nelle ultime ore del giorno sulla scogliera Vulcanello. Da una parte, tra le ginestre si alza il Gran Cono, avvolta la cima della nuvola fumosa lanciata con un rumore profondo che fende l’aria più della stessa nube. Di contro è il profilo azzurro di Salina e di Lipari, di fianco Vulcanello sfolgora al sole morente con le sue ocre rosse. Prima che ogni cosa si nasconda nella notte è un mutare senza soste di tinte: luci nordiche e fredde e bagliori d’incendio. Passa rapidissimo il tramonto dal giallo-oro all’arancione e all’ultimo scintillio si stendono ovunque veli di viola.
A quell’invadente uniformità crepuscolare restano del tutto insensibili il rumore del vulcano e l’Irrequietezza dell’onda in lotta con la roccia. Quando la notte ci toglie la distrazione del contorno e del colore delle cose, il rumore cupo, continuo, ritmico del monte sembra una sorda voce della terra, così come il blando, sommesso, invisibile sciacquettio delle onde contro la lava diventa una pura voce del mare.
LUDOVICO SICARDI