A cura di Massimo Ristuccia
LE VIE D’ITALIA – T.C.I. – AGOSTO 1922 di Italo Bonardi
(un piccolo inciso: nell’articolo Canneto veniva chiamato ” Canneta”)
Il nostro Gr. Uff. avv. Italo Bonardi non è solamente un prezioso collaboratore del Touring, quale Segr. Gen. della Delegazione Romana, ed un intelligente ed attivissimo funzionario del Ministero dell’Industria, ma è anche un turista appassionato ed un osservatore attento e preciso. In questa sua qualità egli ha reso servigi grandi agli interessi turistici, segnalandoci monumenti e bellezze naturali bisognosi di tutela, o località ed attività degne di essere illustrate nella nostra Rivista. Ma questa volta l’abbiamo pregato, poiché molte, interessanti varie eran le osservazioni da lui fatte nelle curiosissime isole di Lipari, che ne facesse direttamente partecipi i lettori, ed egli ci ha inviato lo scritto che pubblichiamo, nel quale sono posti in evidenza i procedimenti e le singolarità dell’industria di Lipari.
L’attento turista che da Messina si reca in treno a Palermo, appena attraversata la lunga galleria di oltre cinque chilometri che penetra nei monti Peloritani ed abbandonato il magnifico panorama che offre lo stretto, nell’affacciarsi al Mar Tirreno, lo vede popolato da un gruppo di isole formanti l’arcipelago delle Eolie. Per tutto il percorso, fino a Palermo, questa vista costituisce il godimento di chi viaggia, presentandosi le isole sotto diversi aspetti ed in diverso numero; soprattutto colpisce lo sguardo, come colpì quello del Maupassant: une singulière montagne blanche qu’on prendrait de loin pour une montagne de neige, sous un ciel plus froid. C’est là qu’on tire la pierre pouce pour le monde entier. Questo niveo gruppo montuoso è costituito da Monte Pelato o Campo Bianco e dal Monte Chirica, alto 603 metri, che sorge nell’isola di Lipari, la più grande la più ricca, la più popolata di tutte. Il color bianco vi è dato dalla pietra pomice, sulla quale non sorge vegetazione, ed è di questa che mi propongo di parlare costituendo una vera ricchezza mineraria per quella località, ed un monopolio italiano. Il turista troverà ricche ed interessanti notizie sulle Eolie nella Guida del Touring (vol. della Sicilia) e rileverà che oltre la pomice, vi si produce dell’ottimo vino, il Malvasia, le vin du diable, tanto è forte e risente della terra vulcanica, e vi è abbondante la pesca delle aragoste e delle tartarughe. Saprà in tal modo che quelle isole costituiscono la fucina dei Ciclopi e che hanno tutte origine vulcanica e si debbono appunto alle eruzioni i giacimenti abbondantissimi di pomice, la quale altro non è che del vetro vulcanico reso spugnoso da bollicine gasose che lo hanno penetrato mentre era fuso riducendolo in schiuma. E’ quindi la pomice una pietra vulcanica, molto porosa, leggera, grigio verdastra, ruvida al tatto e lucente, costituita di un silicato di alluminio, soda e potassio. Questa pietra di Lipari era già nota all’epoca romana e Catullo la ricorda dedicando a Cornelio Nepote i suoi versi che gli offre, come ricercato estetico omaggio, in un libro levigato dalla pomice:
Cui dono lepidum novum libellum Arida modo pumice expolitum? Corneli, tibi.
E chi non rammenta la prima Elegia del Libro II di Tibullo dove dice che in occassione delle Calende di Marte, padre dei romani, offre alla sua fedele o incostante, ma pur sempre sua cara Neera, i suoi versi in un libro bianco come la neve che la pietra pomice aveva ripulito? Ma non solo per i libri era in uso la pomice, perché Plinio ci parla dell’homo comptus semper et pumicatus cioè azzimato e pulito di pomice ed è sempre in Plinio che ricorre il detto: a pumice aquam postulans che tradurremo liberamente nel nostro proverbio: voler cavar sangue da una rapa! Che si trattasse del pomice di Lipari non v’è dubbio, perché i modesti giacimenti delle isole Canarie che, tra parentesi, agli effetti della concorrenza commerciale non preoccupano affatto, non erano a quell’epoca noti, non arrivando allora il mondo che alle Colonne d’Ercole!
Ora la pomice serve ad usi industriali vari e cioè a lucidare i marmi e le pietre litografiche: se ne consuma nelle fabbriche di vetture, di bottoni, per gli articoli di profumeria quali la cipria e le paste dentifrice e a lucidare metalli, oggetti casalinghi e pavimenti. Questo largo impiego ha fatto naturalmente sempre più aumentare la produzione che si smaltisce nella quasi totalità all’estero. Infatti della pomice prodotta nel 1920 nell’isola di Lipari, che raggiunse le 34.150 tonnellate, se ne esportavano 24.734 per un valore di L. 8.656.900. Il resto è rimasto giacente a Canneto frazione di Lipari, provocando una crisi di sovrapposizione che ancora si risente. Più della metà venne in quell’anno esportata negli Stati Uniti d’America. Prima della Guerra una forte cliente era pure la Germania; ora ne ha diminuita la importazione, perché cerca di comperare all’estero il meno possibile e perché trovò modo di fabbricarla artificialmente con un intruglio di sabbia del Reno. Fu la Germania a stabilire l’approdo dei suoi vapori a Canneto di Lipari, seguita poi da altre Società di Navigazione, mentre, fino a non molti anni fa, la pomice veniva portata nei porti italiani del Continente e ricaricata per l’estero.
La produzione come dissi è andata in questi anni considerevolmente aumentando, ad eccezione degli anni di guerra, ed infatti nel 1910 fu di 25.221 tonnellate e cioè quasi 90.000 tonnellate meno della produzione del 1920.
L’esportazione vien fatta in sacchi o in bauli, greggia o marinata e cioè il pezzame o rottame di pomice e viene marinata da loro per proteggere il lavoro nazionale e, poiché nulla va taciuto, per essere sicuri della qualità. Altrove va prevalentemente la polvere di pomice e cioè il lapillo che è il detrito di pomice, il quale non è la polvere del pezzame macinato, ma materia più scadente mista ad ossidiana e ad elementi terrosi che si può dire ricopre come un grande mantello tutto il giacimento pomicifero di Lipari. Oltre le due qualità ricordate, abbiamo i bastardoni che sono pezzi di pomice grossi come una testa d’uomo, le alessandrine, pezzi di pomice ridotti in parallelepipedi che servono anche per materiale di costruzione e altre qualità che qui pare inutile enumerare, anche perché si confondono tra loro.
Interessante e vedere come si scava questo prodotto. Le cave di pomice sono di due qualità: le sotterranee che si trovano prevalentemente in alto sulla montagna, e quelle a cielo aperto o taglie che si trovano sul litorale. Nelle prime si cava prevalentemente la pomice in pezzi, la più scelta e cara, nelle seconde la polvere di lapillo, la più facile ad ottenersi e la più buon mercato. Una statistica del 1920 dell’Ispettorato delle Miniere calcola a 63 le cave a cielo aperto ed a 74 le sotterranee con circa 500 operai. Sono queste tutte cave aperte nel Demanio comunale alle quali vanno aggiunte quelle dei privati che sono poco più di un sesto.
Le più attive sono però attualmente quelle a cielo aperto per la grande richiesta del lapillo che rappresenta i due terzi della produzione del 1920.
L’escavazione procede in modo diverso a seconda che si tratta di cave sotterranee o a cielo aperto, ma è ovunque fatta in modo primitivo, rudimentale ed invano si cercherebbero in essa i moderni sistemi dell’arte mineraria. Dall’alta montagna dove si aprono le cave, i pezzi di pomice estratti vengono portati al mare in sacchi o coffe (cufine) sulle spalle per un percorso di tre quarti d’ora almeno di sentieri ripidi, mentre una semplice teleferica eviterebbe tutta questa fatica. Le cave si aprono col piccone da pochi operai, i quali riescono a fare camminamenti sotterranei di oltre duecento metri nel cuore della montagna dove si passa uno per volta piegati fra il terreno friabile e cedevolissimo. Ogni tanto vi affiora qualche pezzo di pomice compatta di maggior purezza e valore che viene isolato dai detriti e portato fuori. Come ben si comprende trattasi di lavoro pericoloso ed insalubre per la polvere che solleva e per la mancanza di armature nelle gallerie, ma le difficoltà di un razionale sfruttamento vanno ricercate nel fatto che queste cave sono comunali e cioè di tutti. A Lipari il contadino va a cavar la pomice, come se andasse nel bosco civico a far legna e cioè quando ha tempo e il mercato lo richiede. La concessione di escavazione viene data ad un Capo-grotta, dietro il pagamento di una modesta tassa, di solito una lira al mese, che paga assai malvolentieri, il quale riunisce spesso intorno a sé la famiglia e sfrutta la cava. Se i cavatori appartengono a diverse famiglie, sera per sera nel piazzale della cava si dividono il prodotto e se lo portano a vendere al mare. Essi sono molto gelosi del loro Demanio comunale e considerano usurpatori i privati possessori di cave e perciò quella è una montagna che la moderna industria non può violare e tutti i tentativi di monopolio o di concessioni vennero sempre ostacolati e respinti: è da queste cave della montagna che sorte la pomice in pezzi che viene portata e venduta a Canneto di Lipari, paese tutto candido di polvere di pomice, da pochi anni sorto per questa industria dove trovansi i grandi depositi e parecchi mulini. E’ a Canneto che convergono industriali e commercianti che acquistano la merce direttamente dagli scavatori.
Di diversa natura sono le cave a cielo aperto o taglie. Queste sono in riva al mare dove la montagna degrada con forte pendenza. I cavatori avuta la concessione, segnano il terreno avuto da sfruttare con dei pali e poi si mettono a grattarlo facendo scendere tutta questa polvere di pomice e di terriccio. Nella discesa avviene già una prima selezione, perché la forte pendenza isola i ciottoli di pomice; l’altra selezione si ha mettendo questo detrito di pomice nel buratto ed il prodotto ottenuto si porta poi ad essiccare al sole. I granellini di pomice che il buratto separa vengono poi raccolti e macinati nei molini. Il lapillo per verità si potrebbe cavare anche nell’alto della montagna ma non conviene perché bisogna poi portarlo al mare ed il suo prezzo modesto non compensa la fatica. Il processo, come spiegai, è perciò molto semplice e l’unica spesa che ha il cavatore è quello del buratto quando viene a comperarne uno, si mette subito a cavare il lapillo. L’essiccazione di questa polvere si fa anche con essiccatoi a combustione, ma prevalentemente è fatta distendendola al sole, come sopra un’aia; e poiché l’isola non ha che brevissimi tratti di spiaggia, nelle cui località è sorta appunto per questa ragione l’abitato, ne consegue che il lapillo viene, come a Canneto, posto ad asciugare davanti alle case e quando si leva il vento, il paese è tutto avvolto in una tormenta di bianca polvere insalubre che dà un tributo doloroso alla tubercolosi. E il vento non manca, se si pensa che i Greci posero in quelle isole la dimora di Eolo, il padrone dei venti! La lavorazione della pomice del resto non è certo un’industria sana e lo sanno apparati respiratori e gli organi visivi di quei poveri operai che lavorano nei mulini, dove si macinano i rottami di pomice col sistema del frantoio, come per le olive. Uno stabilimento tedesco ad Acquacalda, attrezzato secondo i moderni sistemi industriali con macchine speciali, ha trovato modo, con degli aspiratori, di raccogliere questo pulviscolo dall’aria rendendo più salubre l’industria e raccogliendo un prodotto di primissima qualità, cioè la pomice impalpabile.
Da quanto ho detto si rileva che due sono i sistemi di scavare la pomice ed a questi due sistemi corrispondono due diversi prodotti. Da una parte il fiore di pomice in pezzi, dall’altra la polvere non esente di materie estranee. La prima ha raggiunto nel 1920, l’anno aureo della pomice, il prezzo medio di lire 75 al quintale, il lapillo di lire 1,25! Questo ultimo, appunto per il buon mercato, ha da anni una grande richiesta e va a sostituire quegli intrugli di cenere, di sabbia che si usano a pulire le posate, pavimenti e simili, mentre la pomice in pezzi ebbe a subire lo scorso anno un forte ristagno anche per i grandi acquisti fatti l’anno precedente. Da qui la lotta fra i cavatori della montagna e quelli del mare, pretendendo i primi che quest’ultimi non cavino il lapillo, per costringere i compratori a rivolgersi alla merce più cara e più pura, lotta che tutt’ora dura e agita quella popolazione al grido di abbasso il lapillo! Non credo opportuno esaminare il complesso problema e nemmeno quello del monopolio della produzione e quello ancora di un consorzio obbligatorio per non tirarmi addosso gli uni o gli altri, ma non si può tacere che in questi anni di crisi generale si deve ascrivere a fortuna l’aver trovato un sotto prodotto che salvò l’economia dell’isola. Si pensi che nel primo semestre del 1921 si esportò meno della metà del corrispondente periodo del 1920 perché mancò l’esportazione della pomice in pezzi, perciò se il commercio si è un po’ sostenuto lo si deve esclusivamente al lapillo. Abolire il commercio del lapillo, sarebbe come sostenere di impedire la vendita delle piriti, perché non si riesce a vendere lo zolfo. Ma all’infuori di questo conflitto di lavoratori vi è una cagione ben più grave che fa partecipare ad esso tutta la popolazione delle isole, perché oltre a non esservi famiglia che non abbia o un cavatore, un operaio dei mulini, un barcaiolo, un caricatore, un proprietario di cave o un commerciante o industriale direttamente interessati alla produzione della pomice, vi è poi tutto il resto della popolazione che ne ha un interesse indiretto rilevantissimo, perché nel comune di Lipari, che comprende tutte le isole Eolie meno quella di Salina, appunto per la pomice non si sono mai pagate tasse comunali. Infatti fino al 1835 il Decurionato di Lipari per sopperire alle spese della illuminazione pensò di imporre un dazio di dieci grani siciliani (venti centesimi) per ogni quintale di pomice che veniva esportata, dazio che si pagava all’imbarco. Tale disposizione regolata con rescritto Sovrano del 24 giugnp 1855 venne poi con legge 5 gennaio 1908 n. 10, definitivamente autorizzata e una apposita tabella fissa l’ammontare di questa tassa di escavazione graduata a seconda della qualità, fino a raggiungere un massimo di L. 2 al quintale. Questa tariffa venne poi raddoppiata con un Decreto legge del 7 marzo 1920 in considerazione dell’aumento avvenuto del prezzo di vendita della pomice che nel 1908 aumentò di sei volte. In questa occasione si pensò di mettere una tassa proibitiva al lapillo per renderne in tal modo inutile la produzione, ma il Comune di Lipari si oppose. Tale tassa nel 1920 fruttò al Comune oltre 400.000 lire, perciò i liparesi vedono con terrore la diminuzione dell’esportazione della pomice e non badano alla qualità che si estrae, ma alla qualità che si vende. E’ da augurarsi che Lipari conservi ancora a lungo questo beato privilegio di non conoscere le tasse comunali, ma poiché questa tassa non è pagata dagli isolani, sarebbe giusto che si destinasse qualche somma a rendere più confortevole e ospitale il soggiorno nell’isola pensando per prima cosa alla creazione di un modesto, ma decoroso albergo, tale da offrire quel minimo di assistenza necessaria ed indispensabile, non fosse altro, per ben disporre lo spirito e il corpo a godere le bellezze dell’arcipelago, poiché non dobbiamo dimenticare che vi fu chi ha definito il panorama: uno stato dell’animo!
E così è pure da augurarsi che quest’isola, ricca di un’industria fiorente con oltre 10.000 abitanti, veda finalmente almeno una strada rotabile, poiché non sempre il mare ne consente la visita lungo il litorale, tanto più che la bella strada che congiunge Lipari a Canneto, i due più grossi centri dell’isola, è già fatta per buona parte.
ITALO BONARDI