A cura di Massimo Ristuccia
Il Mediterraneo, intorno la Sicilia e fra la Sicilia e la costa calabra è davvero il mare delle avventure e degli incanti: non ci si può muovere senza che quasi inavvertitamente il viaggiatore entri in una leggenda, trovi nomi e luoghi legati a una storia, a un periplo favoloso. Intanto non sono molto lontani Scilla e Cariddi, con i loro azzurri cani marini, come dice Virgilio ( Scyllam et caeruleis canibus resonantia saxa: sebbene adesso ci si passi addirittura in aliscafo, lo stretto di Messina non ha perduto tutto il colore mitico): di qui Enea fu ammonito a tenersi distante; in queste acque dense e azzurre, agitate sotto da impetuose correnti tutte segrete, dalle quali lame di roccia spunta fuori improvvise, come il torrione di Strombolicchio, spinse la sua nave Ulisse. E se la sede del Ciclope non doveva essere molto lontana, e proprio alle Eolie, a quella manciata di isole e isolette ad ovest del Capo di Milazzo, che Ulisse approdò per un periodo di riposo nel viaggio verso Itaca: sulla fede di Omero, sappiamo che toccò Lipari un’”isola natante-cui tutto un muro d’infrangibil rame e una liscia circonda eccelsa rupe”. Gli endecasillabi di Pindemonte possono sembrare un poco ginnasiali, ma l’isola non ha perso per nulla il suo prestigio: era la sede di Eolo, padrone dei venti. Oggi chi arriva a Lipari non vede il mitico muro di rame, appena la polvere leggera e porosa della pomice che è la maggior ricchezza dell’isola, una polvere che imbianca persino le acque intorno alle coste e infarina le testuggini marine. Subito sotto Lipari, Vulcano, dove il dio aveva la sua officina (almeno ci piace crederlo ancora). Più lontano il rombo intermittente di Stromboli, quindi Panarea, Filicudi, Alicudi. Le memorie classiche non sono appena un’ostentazione di dubbia eleganza, una preparazione letteraria del paesaggio per chi arrivi alle Eolie: se mai vi fu paese che non avesse bisogno di affidarsi alla retorica, è proprio questo.
Il viaggiatore che si imbarca a Napoli o a Messina o a Milazzo per visitare per la prima volta le isole Eolie è in qualche modo un uomo fortunato, inizia un’avventura difficilmente dimenticabile, non meno miracolosa di quella di Alice dietro lo specchio, ma quanto più reale e umana. Fin dall’inizio lo prende l’incanto di un mondo favolosamente salvato dai secoli, l’eccitazione dei primi peripli mediterranei: la bellezza di queste isole è tutta scarna, semplice, ma insieme forte e serena: come Vulcano, come lo scoscendimento della “Sciara del Fuoco”, tutto bruno, lungo il quale scendono in mare pietre roventi, lava, cenere dello Stromboli. Anche se alle Eolie la terra sfruttabile si misura a palmi, se la vita è tanto difficile che chi può emigra, non è una facile retorica parlare di bellezza. Al viaggiatore, ogni isola si rivela con il suo colore: Vulcano e Stromboli hanno una spiaggia di lava nera, che al tramonto riverbera con toni incantevoli (ma Vulcano è gialla anche di ginestre, che fioriscono in aprile); Lipari è bianca di pomice, ma poi scopre le sue vigne di malvasia e di uva bianca; Panare e Salina, si contendono la qualifica di “verde”: ma, dicono, vince Panarea, che è forse l’isola dove i conigli selvatici che la gente caccia con i furetti, sono più numerosi. Ma dove è possibile, dove pomice o lava non rodono il terreno, mandorli, albicocchi, limoni, aranci, pioppi bianchi, oleandri, tamerici e qua e là qualche eucaliptus. Nella memoria di chi le ha visitate, le Eolie vivranno poi legando a ogni nome, Lipari, Vulcano, Panarea, eccetera, un colore insieme fisico e ideale, allo stesso modo che nel nome di Combray o di Balbec Proust vedeva condensata, con una operazione spontanea della fantasia, tutta l’architettura di una cattedrale o un blocco accecante di mare e di luce. Abbiamo detto che in questo mare tutto può accadere: le suggestioni pagane s’affiancano a quelle Sacre senza disagio: alla spiaggia di Lipari, dice una pia leggenda, giunse dall’Armenia la bara di San Bartolomeo, che è il protettore delle Eolie. Era allora abate delle isole (III secolo) Sant’Agatone che ebbe la visione notturna del grande evento: si corse sulla riva, si tentò, di trarre a terra la bara, ma la forza dei pescatori non bastava: solo quando alle funi dettero mano i ragazzi, insomma gli innocenti, la bara venne in secco. In ognuna delle Eolie si può trovare una chiesa dedicata a San Bartolomeo; ma a Lipari, nel quartiere abitato da gente venuta da Acireale, il viaggiatore curioso potrà scoprire un Vico Minotauro, un Vico Cerere, un Vico Giunone, e così via.
Sappiamo tutti che moltissimi sono i luoghi incantevoli d’Italia: ma senza voler far torto a nessuno d’essi, converrà ammettere che una visita, alle Eolie costituisce qualcosa di singolare: diremmo, se non temessimo di essere intesi in senso retorico, che riempie una lacuna della cultura, se per cultura vogliamo dire accrescimento della sensibilità, contatto sempre più profondo e cordiale con la vita. Non per nulla le Eolie sono diventate meta di un turismo non superficialmente mondano: furono i francesi a scoprire per primi queste isole, sbarcando a Vulcano, poco dopo la fine della guerra; ai francesi cominciano a tener dietro svizzeri e tedeschi. E’ giusto che anche gli italiani imparino a conoscerle.
Queste pagine non si propongono naturalmente di essere una guida completa alla Eolie, ma certo un invito: ognuno poi caverà da tale esperienza quanto è più prezioso per la sua natura. Immaginando dunque di stendere un amabile programma per un amico che voglia godere di questa avventura mediterranea (avventura, s’intenda bene, solo spirituale: perché, come diremmo, le attrezzature delle Eolie sono nel complesso buone), fisseremo intanto a grandi linee una specie di itinerario. Per chi venga dal Nord, il porto d’imbarco più adatto è naturalmente Napoli: il “Lipari”, durante la stagione, quattro volte la settimana tocca le varie isole, vale a dire Stromboli, Panarea, Salina, Filicudi, Alicudi, Lipari, Vulcano, e approda poi a Milazzo e a Messina. Partendo da Milazzo, v’è un servizio quotidiano per tutte le isole, ad eccezione di Stromboli e Panarea (a Panarea, però, una volta la settimana il battello fa sosta). Sempre durante la stagione (la stagione va, pressappoco, da maggio a settembre) lo “Strombolicchio” fa servizio quotidiano fra le isole. Da maggio poi entrerà in servizio l’aliscafo, che congiungerà Messina con l’arcipelago in un’ora invece delle cinque-dieci che normalmente occorrono (ma il viaggio non è disagevole). L’affluenza nelle Eolie è naturalmente più intensa durante l’estate; per conto nostro, se dovessimo consigliare un ideale amico, gli diremmo di partire verso maggio o settembre. Per un soggiorno prolungato, le isole più attrezzate sono certamente Panarea e Vulcano, ma quasi ovunque il turista può trovare sistemazione e soprattutto un mondo umano estremamente civile, che se le difficoltà economiche incidono duramente sulla vita della popolazione e le Eolie sembrano ormai abitate solo da donne, vecchi e bambini: gli uomini capaci preferiscono emigrare. Questa sensazione di trovarsi a contatto di una società povera ma non sciatta, non moralmente abbandonata , è una delle attrattive del viaggio. Gli appassionati di pesca subacquea potranno trovare buona preda ovunque ma il loro vero paradiso sono Filicudi e Alicudi: del resto la pesca è di casa alle Eolie: il parroco di Panarea, è addirittura un campione, tocca i venti metri di profondità senza pinne. La pesca, lo sfruttamento delle cave di pomice e la produzione della malvasia costituiscono la povera ricchezza degli abitanti delle Eolie
VITA DIFFICILE
Beati e insieme infelici abitanti. Qui non si conoscono aratri, la “humus” è così poca che non servirebbero a nulla. A Lipari ci sono più o meno mille negozi, che vendono un poco di tutto, compreso televisori da 21 pollici, e il cinema fa i suoi adepti. Ma la scarsità di terra fertile, in queste isole che paiono spuntate dal mare per un gioco o per un ripicco degli dei , spesso piene di soffioni, di crateri, di polle di acqua bollente dove si può anche far cuocere un uovo, è determinante. Quel male ha i suoi vantaggi: lungo la Spiaggia di Levante, a Vulcano le bagnature possono essere terapeuticamente ottime, per effetto delle fumarole che rendono le acque radioattive; a Lipari addirittura c’è un attrezzatissimo stabilimento termale, un edificio rettangolare a due piani su un declivio di verde: si sfruttano le acque di San Calogero, che ebbero già, fin dal 50 avanti Cristo, l’onore di una citazione di Diodoro Siculo.
Ma si diceva della vita difficile delle Eolie: eppure dal periodo neolitico, quando con i depositi di ossidiana, materia, materia vetrosa eruttata dai vulcani, che staccandosi in laminette nere, sottili e taglienti valeva meglio da strumento e da arma delle scaglie di silice, le Eolie diventarono per così dire l’arsenale del mondo mediterraneo, le isole conobbero periodi di prosperità: grandi colate di ossidiana sono state eruttate dal monte Pelato e dalla Forgia Vecchia, i due vulcani che occupano la parte nord-est di Lipari; la più appariscente è tuttora quella di Rocche Rosse. (Del resto la scaglietta vitrea e nera, il viaggiatore se la vedrà sotto i piedi anche in quelle isole dove l’ossidiana non si trova in natura, come una sorta di simbolo, di segno distintivo). Ceramiche venute alla luce negli scavi ( di ciò diremo a suo luogo) parlano di felici scambi con la civiltà minoica. Le Eolie servivano di base alla navigazione: ed erano, anche, base delle scorrerie dei pirati saraceni: a un certo punto, perfino, Ariademo Barbarossa, ammiraglio di Solimano II, deportò quasi tutto e le isole furono poi ripopolate da Carlo V con portoghesi e spagnoli. Forse questo
potrà render conto di una civiltà locale tanto complessa e umanamente ricca, e spiegare, per dirne una, qualche cupola tonda e candida, di gusto tutt’affatto mauro, vicino a una chiesa di stile barocco. Il periodo di floridezza, bene o male, durò nell’età moderna, fino al principio del secolo: gli eoliani avevano un’attiva flotta a vela che trasportava merci e soprattutto la malvasia prodotta in loco. Il primo duro colpo venne con la peronospera, che falciò vigneti dappertutto; poi l’avvento della navigazione a vapore. Senza industria, senza agricoltura e bestiame ( le poche bestie a Panarea vengono condotte a pascolare, se il tempo è bello, nella vicina isoletta di Basiluzzo, un pugno di pietre in mezzo al mare, con solo una casetta), ben poco restava agli abitanti delle Eolie: diciamo poco per non dir nulla. Faticare per strappare un pesce al mare, un poco di vino avaro alla terra oppure emigrare. E’ questo il partito preso generalmente. Sbarcando a Lipari, a Stromboli, a Panarea, a Vulcano, il viaggiatore è colpito dal fatto di muoversi tra una folla di vecchi, donne, bambini come Gulliver non trovava che nani al suo arrivo a Lilliput. Chi può, lascia le isole e chiama a sé i parenti rimasti, se appena riesca a racimolare il denaro del viaggio. Un tempo andavano specialmente verso l’America, oggi ci si orienta verso l’Australia e la nuova Zelanda; un tempo l’emigrato che aveva fatto una piccola fortuna, tornava alla sua isola, comperava la casa, la vigna, la barca; oggi non torna quasi più nessuno, tranne che per una breve visita.
E’ una visita di pietà e di affetto, giacchè poi la lontananza non spegne l’attaccamento, il rimpianto e diciamo pure l’orgoglio; Stromboli forse è più a Nuova York e a Sydney, che su questa isoletta del mediterraneo che la collera del vulcano scuote metodicamente. Negli Stati Uniti, generalmente, gli isolani sono negozianti di verdura, imprenditori di lavori murari; in Australia quasi tutti negozianti. Da Lipari, da Stromboli, da Salina, partono lettere e cartoline indirizzate a “Broccolino”, che non è altro che Brooklyn, nella amabile, irresponsabile deformazione di chi ha creato in effetti, con una civiltà mista, una lingua o un gergo nuovi. Ma partono anche quelli che, si penserebbe, non dovrebbero partire, gente di età ormai stanca: hanno lasciato Panarea, tanto per fare un esempio, Giuseppe Tesoriero, che ha 93 anni, e le sue sorelle, Francesca e Maria, di 87 e 84, tutti per Sydney.
ISOLE BEATE
Queste splendide isole, queste Isole Beate, se abbiamo occhio solo ai loro incanti naturali, rischiano di rimanere spopolate come un atollo del Pacifico; è una crisi alla cui urgenza non si può sottrarre. Certo a contribuire a una rinascita delle Eolie può molto il turismo. Buoni alberghi (eppure il problema dell’acqua è uno dei problemi vitali: ora è in via di risoluzione con i nuovi serbatoi costruiti per contenere l’acqua portata dalle navi cisterna, e con l’acquedotto di Lipari) sorgono un poco dappertutto. Solo Salina e Lipari hanno luce elettrica ma non crediamo che spiacerà allo scopritore (o alla scopritrice) delle Eolie andare a letto a Panarea portando in mano un lume a petrolio ancien règime o leggere nella sala convegno di un albergo sotto la fiamma a gas, immortalata da Mallarmè: sono anche queste curiosità del viaggio.
La Regione Siciliana s’è data assai da fare per favorire il turismo, destinando 9 milioni e mezzo a Stromboli, 20 a
Vulcano, 1 milione a Lipari per miglioramento delle attrezzature; inoltre per l’anno appena finito sono stati stanziati fondi in questa proporzione: Santa marina Salina 4 milioni e mezzo: Lipari 7 e novecento, Vulcano 9, Panarea 3 e duecento, Stromboli 2 e ottocento. Nel 1955 fu bandito un concorso con 5 milioni di premio per il rammodernamento degli impianti igienico-sanitari; inoltre l’Ente Provinciale per il Turismo ha già approntato progetti per la costruzione di Alberghi-Posti di ristoro con una quarantina di letti a Stromboli e Panarea. Non c’è dubbio che in questo senso s’è lavorato. Ma del resto, in ogni caso non mancherebbe all’ospite un’accoglienza sobria eppure affettuosa in una delle nitide costruzioni a cubo che formano la caratteristica delle Eolie, e che forniscono agli esperti le più forti ragioni per una difesa dell’architettura spontanea: le culere o colonne in muratura, raccordate con travi, fanno un amabile berceau; qua e là le case hanno fastigi ingenuamente merlati, pipitoni o mierle, quasi un rudimentale blasone.
In uno scorcio dall’alto, sotto il sole i tetti-terrazze, di calce bianca accecano, quando non siano coperti di frutta da seccare. A una finestra una ragazzina gioca con un pupazzetto di stoffa in forma di vecchia che fila, unito a un limone che reca infisse sette penne a ventaglio, le sette domeniche di quaresima: è infatti “a za Coraesima”: madre del Carnevale; ogni domenica i ragazzi sfilano una penna.
Ma eccoci avventurati nel mare delle Eolie, così compatto e azzurro che volentieri rammenterebbe anche ai non letterati l’immagine famosa di un poeta, dal “tetto tranquillo su cui zampettano colombe”. Eppure il mare intorno a Stromboli, e fra Stromboli e Panarea lo definiscono “secco”, cioè pieno di correnti create da numerosi scogli (gli eoliani dicono “fra Stromboli e Panarea””, come noi diciamo “ fra Scilla e cariddi”); nel tratto che va da Panarea a Lipari, invece è “bianco”, o di corrente. Ma solo lungo le coste di Panarea vi capiterà di vedere un’acqua tanto verde, e trasparente, da far venir voglia di tuffarvicisi.
LA SCIARA DEL FUOCO
Stromboli, la prima delle Eolie che incontriamo venendo da Napoli, dà, se vogliamo, quel piccolo brivido, quella punta di “orrido” senza la quale non esisterebbe nessuna bellezza. A Stromboli, un paese vero e proprio non esiste: vi sono, sul vesante nord-occidentale, contrade (San Vincenzo, San Bartolo, Piscità), che tutte insieme formano Stromboli; sul versante opposto è Ginostra arrampicata sulla costa del vulcano come una testuggine, a cui si arriva solo via mare.
Ma il vero signore dell’isola è il vulcano, in qualche modo il nume dell’arcipelago; esplode in media ogni sette minuti e almeno una volta all’anno dà lo spettacolo di una eruzione grandiosa. Non ci si abitua alla voce dello Stromboli, anche abitando alle sue falde per tutta una vita: lo assicurano i poco più che millecinquecento che stanno a Stromboli. Il vulcano, che è più alto e attivo di Europa, è un dio permaloso: il viaggiatore potrà trovarlo incappucciato di una spessa cortina di vapori miasmatici e il tentativo di avvicinarsi al suo cratere, per sé difficoltoso, diventerà impossibile; ma già la “Sciara del Fuoco”, lo strapiombo donde decadono lava e sassi roventi in mare, è un cupo, bruno, eppure eccitante spettacolo. Per salire al cratere occorrono mani e piedi e una buona volontà: in capo a tre ore si scopre una valle lunare di cenere bianca e azzurra, punteggiata di rocce gialle, rosse, nere; i due forni del vulcano hanno un diametro di una trentina di metri l’uno, di otto o dieci l’altro.
Panarea, che diremo la nostra seconda tappa (ma non intendiamo imporre itinerari obbligati: uno degli incanti di questo viaggio sarà la piena libertà), vanta il primato di essere la più bella dell’arcipelago. Su quest’isola vorremmo, se fosse possibile, soffermarci un poco, giacchè lo sbarco a Panarea offre una delle immagini-simbolo delle Eolie. L’isoletta è tutto intorno chiusa, a ferro di cavallo, da bastino di roccia: dove s’apre il baluardo è un vero giardino, fiorito con soave meraviglia in mezzo al Mediterraneo, che vi viene sott’occhio. Fichi d’india , olivi, mandorli danno ombra a un paesaggio singolarmente dolce; il delicato dell’erba è solcato solo da vialetti di cemento, proprio come in un giardino; niente auto, niente traffico, naturalmente. Una pace ingenua, un senso di speranza, di vita che inizia: qui avrebbero potuto essere i Feaci, da un cespuglio schizzar fuori la palla di cuoio e sughero con cui giocava Nausica. Gli abitanti non sono più di trecento. Un po’ di agricoltura, pesca, qualche capretta che vien poi condotta a pascolare a Basiluzzo. Sul fondo del tratto di mare che separa Basiluzzo da Panarea, quando il tempo è chiaro, potrete vedere tracce di antiche costruzioni, che sembrano provare che isola e isolotto furono un tempo cosa sola (e naturalmente a Panarea non bisognerà perdere l’occasione di visitare il villaggio preistorico detto “del Mlazzese”). Gli antichi chiamavano Panarea “Euonymos”.
Salina è un’altra “isola verde” delle Eolie ed è quella per cui si può parlare, con qualche ragione, di agricoltura: malvasia e capperi sono i due nomi magici per in non più che tremila abitanti di Salina. Qui i capperi, i migliori di tutte le Eolie, dove pure non mancano, sono di due tipi, tondi e piatti: eccellente il cappero tondo o cappero “nociddo”, che deve il nome alla forma di nocciola, duro; l’altra varietà è quella del cappero “spinuzzo”. I capperi di Salina, i capperi delle Eolie sono viaggiatori importanti, arrivano fino alle Indie e in America, stivati in barilotti. Ne vanno alla ricerca, prima che il bocciolo si chiuda in un fiorellino bianco (che fa capolino anche nelle pagine dell’Odissea) donne e ragazzi: sono forse le piante che meglio esprimono il carattere di queste isole, la necessità di strappare la vita dove si può: nascono nella crepa di un muro, fra due costole di roccia, dovunque sia un pugno di terra e sembrano all’occhio non esperto un mozzicone di arbusto bruciato.
La malvasia, sebbene quella di Salina sia famosa, ha ceduto un poco il passo ai capperi. Oggi produrre malvasia costa assai caro, giacchè non si può ricorrere alla meccanizzazione tranne che per la pigiatura. I grappoli lunghi, radi e dorati, raccolti di agosto, vanno distesi su “cannizzi” di canne intrecciate, e rivoltati ogni poco, per un periodo di una ventina di giorni. Eppoi occorrono graticci per difendere i grappoli da polvere ed acqua; e c’è in agguato il pericolo della peronospera e della “malattia dello zolfo”. Salina produce in tutto circa trecento ettolitri di malvasia e un annata buona rende al massimo 27 mila lire per ettolitro: purtroppo capita assai di rado, specie dopo l’”anno nero” della peronospera, il 1890, che devastò addirittura i vigneti di Salina e delle altre isole. Tuttavia le belle pergole quadrate restano ancora la corona di Salina.
PARADISO DEI PESCATORI SUBACQUEI
Salina, già s’è detto, è l’unica delle isole Eolie, insieme con Lipari ad avere energia elettrica, fornita da un gruppo elettrogeno, donato trent’anni fa da un emigrato a New York. Tra i vari comuni(Santa Marina Salina, Malfa, Leni) dall’aprile-maggio in poi v’è servizio d’autobus. Una bellissima strada rotabile , bella sia per il fondo che per le vedute che offre, va da Santa Marina Salina a Rinella, seguendo in molti punti la costa, in una specie di periplo dell’isola; per questa strada sono stati spesi dalla cassa del Mezzogiorno circa 245 milioni. A Valdichiesa è un santuario dedicato alla Madonna del Terzito, dove un eremita si rifugiò per scampare al mondo e ai saraceni e dove l’immagine divina apparve tre secoli fa, dicono le cronache, annunziata da tre tintinnii di campanello.
Di Alicudi e Filicudi s’è forse già detto abbastanza definendole il paradiso dei pescatori subacquei , dato il bizzarro disegno ad anfrattuosità delle coste. A Filicudi è la Grotta del Bue Marino, un’amplissima cavità rocciosa, con una piccola spiaggia all’interno; nel vuoto, il movimento del mare provoca un morbido mormorio, quasi un muggito. Quanto ad Alicudi, che è la estrema propaggine occidentale dell’arcipelago, la si potrebbe chiamare come gli antichi, l’isola dell’erica.
Lipari è la più grande delle Eolie (oltre 37 chilometri quadrati): i suoi primi abitanti si fermarono sulla piattaforma rocciosa che domina le insenature, Marina Lunga, dov’è il pontile dell’attracco per le navi da carico e per i postali, e Marina Corta, con la penisoletta del Purgatorio. E’ su questa penisoletta che sorge la fabbrica candida della Chiesa delle Anime del Purgatorio. L’aspetto dei luoghi non potrebbe rispondere meglio al nome: una eleganza mansueta di linee, una gravità dolce e confortante; non una bellezza che eccita e scuote, ma in cui l’occhio e lo spirito riposano quietamente.
Lipari è un esempio del “dissanguamento” delle Eolie: il Comune è sceso rapidamente da 14 mila abitanti, ai 12 mila di oggi. Eppure Lipari è una delle isole in cui sono stati fatti i maggiori sforzi per adeguarsi ai tempi. Ha luce elettrica; avrà un acquedotto sul Monte Sant’Angelo, sfruttando, come serbatoio, il cratere spento del vulcano, che distribuirà l’acqua a tutto il centro abitato: l’opera costa 400 milioni, anche questi erogati dalla Cassa del Mezzogiorno; ha scuole elementari, una media e una scuola tecnica commerciale, dotata di un impianto di radiofonia e di magnetofoni, per ovviare alle eventuali assenze degli insegnanti. Il guaio è che tutto costa caro a Lipari, giacchè tutto, o quasi, deve venire dal continente; chi non se la cava lavorando nelle cave di pomice o con la pesca, preferisce il miraggio dell’emigrazione. A Lipari come del resto in tutte le Eolie, la cronaca nera ha ben poco da fare: al massimo qualche furto di alimenti, di cui si può ben intendere la disperazione e la fatalità. Questo è segno di quella particolare civiltà, di cui si diceva, che fa delle Eolie un paese particolare, anche dal punto di vista umano. Eppure proprio a Lipari è toccato il tristo previlegio d’esser prima (1890-1914) sede del domicilio coatto, e poi di ospitare i confinati politici mandativi dal fascismo.
LE CAVE DI POMICE
L’economia dell’isola è basata principalmente sulle cave di pomice: ce ne sono a Canneto, a Campo Bianco, a Porticello, ad Acquacalda. Si entra in un mondo acre di candida polvere impalpabile e rodente. Fra gli uomini lavorano anche le donne tutte vestite di nero, quando tira vento entrano ed escono dalle nuvole di pomice, a piedi nudi. La pomice alla rinfusa, per costruzione, vien spinta con carrelli su pontili di ferro che si protendono sul mare; quella in sacchi vien portata a spalla alle barche che la recano ai bastimenti. Tra lo spolverio candido, dall’alto della cava, il mare compare in una profondità favolosa. Fino al 1945 il gettito delle imposte sulla vendita della pomice era sufficiente a coprire tutte le spese del Comune, sicchè gli abitanti di Lipari non conoscevano tasse comunali. L’amico (o l’amica) cui diamo i nostri consigli potrà alternare visite al Museo Archeologico, che è davvero assai interessante, alla cattedrale normanna, alle cave di pomice, con pesca subacquea e gite sul mare. Un suggerimento: non dimentichi di spingersi fino a “Quattrocchi”, dove lo sguardo si apre su roccia, scogli, mare e sulla sagoma di sfondo di Vulcano.
Vulcano è l’ultima tappa del periplo e offre l’immagine simbolo: quella di un attraente orrore. Appartenne al marchese Nunziante, un calabrese che la vendette a un inglese, un tal, che Stevenson, che pensava di sfruttarne i giacimenti di allume e fiore di zolfo. L’eruzione del 1888 (ora il vulcano che dà il nome all’isola è in stato di quiescenza) convinse gli eredi a rivenderla alla famiglia Favaloro e ai fratelli Conti che, unitamente a un signor Giuffrè, sono ora i padroni dell’isola. A Vulcano, tenendo sempre un poco l’orecchio che l’officina del dio non si desti, si vive di pastorizia, come ai tempi omerici: ci sono settecento capre, qualche decine di mucche, eppoi un poco di vino, di grano di segala selvaggia, detta “irmano”; ma non tanto poca, che il pane viene da Lipari. Abbiamo già detto che una delle curiosità di Vulcano sono le fumarole sottomarine: in certe zone il mare bolle letteralmente; dove è possibile bagnarsi, le acque hanno un efficacia radioattiva. Forse per questo suo aspetto di mondo ancora agli inizi, appena solidificato, piace tanto ai turisti. Ecco le grotte, lungo le cui pareti affiorano minerali di colori più singolari; ecco zone aride, dominate da torrioni di roccia che paiono prese di peso da un film di indiani nell’Arizona. Al progresso dell’isola contribuirà certo la strada che risale tutto il costone di ponente della valle, di fronte al cratere del vulcano, fino al piano e che costerà 60 milioni.
Il nostro viaggio attraverso le Eolie, a questo punto, è finito: o almeno è concluso quello schizzo che abbiamo voluto fare delle sorprese e delle attrattive di tale viaggio. Niente più che uno schizzo, un abbozzo, ripetiamo: neppure per chi c’è stato parecchie volte è facile definire la suggestione di questo arcipelago: la luce netta e pulita, l’ombra magra e pura di un mandorlo, di un olivo sulla roccia, le scaglie di ossidiana sotto il piede; eppoi l’impressione di entrare di entrare in un mondo remoto e insieme concreto, la antichissima civiltà dei luoghi e delle persone; di tutto questo e di altro è fatto il fascino delle Eolie.
Chi è capitato è spesso preso dal “mal du pays”, dalla nostalgia di rivederle; ma forse più fortunati sono coloro che ancora non le conoscono e davanti ai quali si apre ancora intatta questa avventura.