di Massimo Ristuccia
TERREMOTO CHE COLPI’ L’ISOLA DI SALINA A FINE DICEMBRE 1954 IN PARTICOLARE POLLARA.
DA ATTIVITA’ SISMICA IN ITALIA DAL 1953 AL 1957 di M. DE PANFILIS
PAG. 50 SALINA (ISOLE EOLIE) 27 DICEMBRE 1954 GRADO VII
Un periodo sismico di frequenza assai elevata e culminato in una scossa di fortissima intensità si svolse durante il mese di dicembre 1954 nelle Isole Eolie, colpendo gravemente Salina, la seconda, per estensione e popolazione, fra le isole dell’Arcipelago.
Fra le numerose perturbazioni telluriche abbattutesi su Salina durante il secolo attuale, questa del 1954, è senza dubbio la più violenta, ove si accettui il sisma quasi disastroso del 17 agosto 1926 che nei centri abitati dell’Isola, specialmente a Malfa e Pollara, provocò crolli e lesioni assai gravi in moltissime abitazioni.
Il periodo sismico del 1954 cominciò a manifestarsi l’11 dicembre, alle 13,47 circa, con una scossa che fu anche registrata negli Osservatori di Messina e di Reggio Calabria. Altre sensibili scosse, pure registrate nei predetti Osservatori, si ebbero il 14 dicembre, dopo le quali parve ritornata la calma. Ma alle 16.41 circa del giorno 23, a salina, il suolo cominciò nuovamente a tremare e, a partire da tale ora, i movimenti tellurici si susseguirono con grande frequenza fino alle 07.30 del giorno successivo , addensandosi soprattutto intorno alla mezzanotte fra il 23 e il 24. Dopo una nuova pausa di relativa tranquillità, alle prime luci dell’alba del 27 dicembre, la popolazione dell’Isola veniva svegliata di soprassalto da una sensibile scossa accompagnata da intensi boati. Alle 09.59 circa si verificò la scossa principale che investì con grande violenza soprattutto quella parte dell’Isola che è dominata dell’antico vulcano chiamato Monte dei Porri. Il centro più colpito, fra i cinque in cui è divisa la popolazione di Salina, fu Pollara, piccolo villaggio, frazione del comune di Malfa, che sorge sul fianco NW del Monte dei Porri: alcune vecchie case crollarono in parte e numerose altre restarono gravemente danneggiate. Fortunatamente non vi furono vittime, ma la popolazione, presa da vivissimo panico, abbandonò le abitazioni accampandosi sulla riva del mare.
Anche a Malfa, il centro più popolato dell’Isola, situato al centro della costa nord, e nel comune di Leni, a sud del Monte dei Porri, la scossa fu assai violenta e causò lesioni gravi in molte abitazioni.
L’intensità del sisma, a Pollara e nelle immediate vicinanze, può essere valutata di VII grado Mercalli, anche se gli effetti dinamici sulle abitazioni possono indurre a giudicarla ancora più alta. E’ da tener presente che le case di Pollara, come pure quelle degli altri centri di Salina, sono in generale poco solide sia perché di costruzione assai difettosa sia perché oramai molto vecchie ed indebolite da precedenti fenomeni sismici.
D’intensità inferiore la scossa risultò sulla costa orientale dell’Isola, ove sorgono S. Marina Salina e il paesino di Lingua. Ma anche in queste località si verificarono lesioni più o meno gravi in molti edifici.
Abbiamo assai scarse notizie sull’entità della scossa nelle altre isole dell’Arcipelago. Possiamo solo dire che nella vicina Lipari, il movimento tellurico fu generalmente avvertito, ma non destò alcuna apprensione: ancora più leggermente fu avvertito nelle isole di Panarea, Filicudi e Vulcano. Sotto forma microsismica, la scossa potè essere registrata, oltre che negli Osservatori di Messina e di Reggio Calabria, anche in quelli di Taranto e di Roma……
“DITEMI SE CASA MIA STA ANCORA ALL’ERTA”
Così ha telegrafato, da Melbourne, un emigrante di Salina, chiedendo ansiosamente notizie sul terremoto delle Eolie. L’incubo della “morte bianca” cominciò la notte del 24 dicembre, cui seguì una settimana di passione, fino all’alba del giorno di San Silvestro.
di LUIGI FORNI
La “psicosi tellurica” è un male che non uccide. Ne ha scorto le tracce terrificanti sui volti degli abitanti di Salina, che è stata l’isola maggiormente provata dagli sconvolgimenti sismici verificatisi nell’arcipelago delle Eolie. Psicosi tellurica vuol dire terrore costante di vedere la terra spalancarsi sotto i piedi, vuol dire ossessione di sentirsi rovinare addosso le mura circostanti. Questo fenomeno, tristemente noto agli esperti di geofisica, è legato al presentimento della morte cagionata dal terremoto, una morte viscida e bianca che striscia nel sottosuolo e quando affiora è troppo tardi per combatterla, ha già ghermito intere famiglie e distrutto le case e gli averi.
L’incubo della “morte bianca” fece uscire dalle case, svegliandoli di soprassalto nella notte del 24 dicembre, uomini e donne della frazione di Pollara, che si diressero in mesti cortei verso il mare, sospingendo e abbracciando, o addirittura issando sulle teste, bambini che di tenero palesavano ormai soltanto l’età, rinsecchiti come spogli, con gli occhi lustri e le guance smorte. Ancora ottanta volte la terra sull’isola avrebbe tremato, nel volgere di sei giorni, devastando le mura e i vigneti coltivati a terrazze, ma per fortuna sempre rifiutandosi di inghiottire vittime umane.
Al primo allarme seguì una triste, drammatica veglia di Natale, punteggiata dai rintocchi cupi e radi provenienti dalla chiesa di Santa Marina. Nelle case vuote , i lumini a olio allungavano sottili lingue di chiarore fumoso sulle immagini dei santi attaccate alle pareti. Quando fu mezzanotte le famiglie all’addiaccio i prostrarono sul tufo minaccioso per celebrare la nascita del Cristo. Il mare mugghiava intorno, mentre un vento astioso, ostinato, spazzava i versetti delle litanie intonate a gran voce da quelle moltitudine dolorante. Anche i centri di Malfa, Rinella, Leni e Lingua erano stati sgomberati, e oltre quattrocento persone si erano asserragliate nelle grosse baracche costruite alla periferia dei paesi, in previsione di siffatte evenienze. Immersa in una angosciosa prova di pazienza, la gente attendeva che le viscere dell’isola, finalmente placate, zittissero. Ogni tanto un boato più forte lacerava l’aria, accompagnato dai tonfi sordi provocati dalle crepe che si aprivano sulle pareti delle case lontane. Allora le donne smettevano per un attimo di pregare, e tutti si ponevano in ascolto, trepidanti. Nello sguardo di ciascuno si leggeva una muta, disperata domanda: a chi, stavolta, sarà toccato? Chi di noi, tornato il sereno, troverà sepolte sotto cumuli di calcinacci le sue cose e i ricordi più cari? Pareva di essere tornati al tempo degli allarmi aerei, quando le parenti delle grotte riuscivano spesso a salvare la pelle dei rifugiati ma non erano mai così massicce da rendere impercettibile la catastrofe che arroventava la terra d’intono.
Il movimento tellurico, inesorabile ma diluito nel tempo, imprimeva le stimmate del dolore sui volti dei pescatori isolani, abituati a combattere a viso aperto un mare infido quanto si vuole, ma sempre chiaro nei suoi scatti d’ira. Tale considerazione dovettero fare le molte famiglie di Salina che presero il largo appena delineatosi il pericolo del terremoto, raggiungendo i più ospitali approdi di Milazzo o di Lipari. Alcuni preferirono rimanere in vista della propria casa, e si spinsero al largo su barche e velieri, sostando per giorni e notti sulla distesa delle acque, fino a quando l’istinto o le altrui esortazioni non suggerirono loro di tornare.
I soccorsi inviati da Palermo e da Messina giunsero solleciti a soddisfare necessità improrogabili: viveri, tende e coperte, per gente che aveva abbandonato il focolare senza nemmeno trovare il tempo di chiudere l’uscio alle sue spalle. In questi giorni cominciano a giungere a salina anche i primi soccorsi, spediti via aerea dall’estero. Sono le testimonianze di un inesausto amore per la terra d’origine, espresse dagli emigranti eoliani, uomini volitivi che appena possono si affrettano a cercare fortuna in località meno ingrate, talvolta in continenti lontanissimi (notevole il flusso migratorio verso l’Australia), oppure anche in Sicilia o nella Penisola. E con i pacchi dono sono giunti a valanga i telegrammi dall’estero, che richiedono più particolareggiate notizie in merito alla sciagura.
Da Melbourne, l’emigrante Salvatore Nicosia ha inviato un cablo così concepito: “Ditemi se casa mia sta ancora all’erta”. La particolarità comune a tutti gli emigranti dell’arcipelago è infatti quello di andarsene nel Mondo nuovo o in questo nuovissimo, come se si recassero a comprare un chilo di zucchero o un pan di burro nella vicina Milazzo, lasciando ogni suppellettile al suo posto, le sedie in bell’ordine intorno alla tavola e perfino il pane affettato nella madia. Questa usanza vuole esprimere fiducia nei compaesani, che cureranno con scrupolo gli interessi dell’assente, ma anche fiducia in più o meno prossimo ritorno. Basta spiare attraverso i vetri delle superstiti case deserte, tozze e basse, per intendere che forse i partenti hanno ragione nel regolarsi in tal modo, chi li conosce conserverà sempre la speranza di ritrovarli assisi dinanzi al desco.
Al dottor Giuffrè, sindaco di Santa Marina, e ai suoi colleghi, primi cittadini degli altri comuni di Salina, tocca ora il compito di rassicurare i fratelli lontani: dopo avere sussultato per una settimana, l’isola ha ripreso a vivere e i lavori di restauro sono stati intrapresi, dovunque c’è un tetto divelto, una parete sgretolata o una falla da tamponare.
Le case di Pollara, un’ottantina, sono le più seriamente danneggiate; fragili perché costruite con impasti di lava e di fango, esse hanno ceduto, già erose nelle fondamenta dai precedenti fenomeni sismici. Ma risorgeranno presto: qui la lotta degli uomini contro l’avversa natura non ha soste, affrettandosi gli uni a ricostruire e restaurare ciò che l’altra seppellisce e danneggia. E fino a quando la morte viscida del sottosuolo si limiterà ad inghiottire le mura, i mobili e le travi, si potrà esser certi che disperata volontà degli uomini continuerà ad avere il sopravvento.
La “morte bianca” di Salina rientrò nel suo guscio la mattina del 31 dicembre, in tempo utile perché gli abitanti dell’isola salutassero in pace il nuovo anno. All’Alba di San Silvestro le mulattiere si risvegliarono, percorse da un traffico vivace; il Vallonazzo, che si sprofonda tra il Monte dei Porri e la Fossa delle Felci echeggiò dei pittoreschi brindisi alla voce, che si rincorrevano da un casolare all’altro.
Luigi Forni