di Chiara De Luca
“A Roberto, deceduto per invisibilità in uno stato sociale che non esiste”.
Oggi, durante questi giorni di protesta e di lotta, anche Roberto ci ha lasciati. Ci ha lasciato con qualche sibilo e qualche lamento: un lamento muto, inascoltato, tuttavia cronico, continuo e inesorabile, come quello che proviene dall’ospedale che stiamo tentando di difendere da anni
di violazioni e di soprusi.
Un silenzio abissale il tuo, Roberto, dettato sopratutto dalla malattia che da almeno tredici anni ti affliggeva: una malattia mentale fra le più infime e ancora, alla fine, fra le meno comprensibili.
Una malattia che per prima uccide il tuo legame col mondo, con gli affetti e con la vita stessa: una malattia che ti mura vivo dentro un corpo inespressivo, prigioniero di fantasie solipsichiche forse così
perfette, quanto così tristemente irreali. Spero fossero fantasie felici.
Sei stato vittima e martire più volte: la prima quando da lavoratore pumex la fabbrica chiuse lasciandoti senza lavoro. Una fabbrica dove si lavorava senza dispositivi di protezione e dove i fumi sollevati dallo scavo della pomice causavano la silicosi.
Mi chiedo oggi se il tumore che ti ha portato via non abbia a che fare con quest’altra storia rimasta priva di giustizia.
Era lecito chiederselo ma mai nessuno lo ha fatto per te. Io stessa per non vedere tutto questo orrore mi sono girata dall’altra parte perché, toccata troppo da vicino, sentivo di dovermi difendere.
L’ho deciso quel giorno di Aprile dell’anno passato quando dopo un colloquio coi servizi sociali scoprì che non era possibile mandare in RSA pazienti oncologici con una patologia schizofrenica: servivano
strutture ”ad hoc” private, lontane e costosissime (circa 2000 o 3000 euro al mese a fronte di una piccola pensione di invalidità totale).
Le condizioni materiali di esistenza avevano già decretato la tua fine.
Quello stesso giorno rimasi muta davanti la psichiatra che seguiva il tuo caso, quando, entrando in punta di piedi e a testa bassa in ambulatorio, le chiesi se poteva autorizzare un TSO, questo perché era l’unico modo per poterti portare via dall’isola, sulla terraferma.
Avevi il diritto di essere curato anche se eri terrorizzato all’idea di prendere un aliscafo, tuttavia, andavi in qualche modo sedato, perché saresti stato ingestibile. Mi costò molto che fossi io a chiederlo: io che per forma mentis personale credo nell’antipsichitria della scuola di Basaglia e nella medicina territoriale di comunità; io che lo strumento del TSO, così come viene implementato, lo trovo un inefficiente palliativo a breve termine.
“Applicare la contenzione, la forza, su un paziente oncologico” mi disse, “Ma lei ha idea di cosa sia l’etica, Signorina?”.
L’ etica, quale etica? Di chi e per chi? Meglio girarsi dall’altra parte.
L’etica vista da questa posizione priva di analisi è solo una bella parola morta e sepolta.
Avrei dovuto risponderle e invece me ne andai.
Ho pensato ai libri su cui ho versato sudore, alle discussioni con professori e colleghi e ho concluso che quando noi che studiamo la psicopatologia parlando di “setting” psicoterapeutico e di “presa in carico del paziente” ne parliamo al solo patto di escluderne tutte le condizioni socio-economiche e strutturali a monte.
Tornando a noi, dopo quel giorno per i tuoi familiari più vicini é iniziato un calvario lunghissimo: tempo speso fra ricoveri interminabili, ambulanze, aliscafi, elicotteri e stanze in affitto su una terraferma di sofferenza, rabbia e impotenza.
Quello che oggi posso dirti Roberto è che ti chiedo perdono se non siamo riusciti a fare abbastanza per te: per quello che mi riguarda la tua memoria si lega ancor più indissolubilmente alla difesa di questo ospedale.
Tutta la nostra rabbia deve essere ora ragionata e canalizzata affinché non rimanga vana. Vogliamo la garanzia di una sanità pubblica, efficiente e di massa che difenda anche le categorie più fragili, quelle che non hanno più voce e che necessitano di un’assistenza quotidiana: come te che hai
sofferto in silenzio senza nemmeno poterti lamentare del dolore fisico, perché la distanza che ci divideva era forse difficilmente superabile.
Lotteremo per te, lotteremo per Lorenza e per tutti gli altri: casi molto diversi fra loro uniti solo dall’assenza di un diritto fondamentale, di base e inalienabile.
Infine, per chiudere questo lunga lettera, vorrei ringraziare la gentile umanità dei professionisti della cooperativa che hanno prestato le cure per il fine vita, per la loro pazienza e per tutte le difficoltà che sono intercorse, come quando per svolgere questo lavoro usurante, bisogna arrivare dalla terraferma in condizioni non sempre ottimali e visitare un enorme numero di malati terminali, col dolore emotivo che tutto ciò comporta e l’amara sicurezza di non poter fare di più a causa dell’esternalizzazione dei servizi
di cura.
A Roby, che era mio zio e che oggi si é spento e a tutte le altre vite volate via per una meschina logica di numeri e di profitto: nella consapevolezza, sempre più forte, del bisogno di una medicina territoriale di base che esista affinché garantisca ai professionisti di trovarsi nelle condizioni di svolgere
efficacemente il proprio lavoro che è il più nobile; ovvero la cura della vita umana del singolo e della società nel suo complesso, perché, quest’ultima, senza uno stato sociale dietro è destinata solo a scegliere fra uno spietato cannibalismo o il suicidio.
Quella di Roberto era solo una delle tante storie che andavano da qualcuno raccontate.
Che tu possa ora riposare in pace.
Chiara De Luca