di Pietro Lo Cascio
Gentile Direttore,

di tanto in tanto, le capre alicudare tornano a ritagliarsi uno scampolo di cronaca. La loro rinomata voracità affligge l’agricoltura eroica dei pochi e ostinati contadini dell’isola, il loro incedere turba la secolare stabilità dei muri in pietra a secco; insomma, la faccenda farà anche sorridere qualcuno, ma centinaia di capre inselvatichite che si aggirano indisturbate su un lembo di terra delle dimensioni di Alicudi possono diventare un problema.
Come lei ha gentilmente voluto ricordare, nel 2008 l’argomento era approdato in consiglio comunale, senza però riscuotere particolare attenzione; da allora riappare periodicamente, al pari di tante vicende eoliane – talvolta ben più gravi e avvilenti – che rischiano di sembrare irrisolvibili.
È opportuno premettere che le capre ad Alicudi non sono arrivate a nuoto: qualcuno ce le ha portate, poi la situazione gli è sfuggita di mano e gli animali – in ossequio ai dettami biblici – si sono moltiplicati. Insomma, è il classico copione di un’invasione biologica, un fenomeno che ha assunto proporzioni allarmanti a livello globale, sebbene manchi ancora di una Greta Thunberg per assicurargli la proiezione mediatica che invece meriterebbe.
Eppure, nel 2021 la prestigiosa rivista “Nature” (https://www.nature.com/articles/s41586-021-03405-6) ha pubblicato una stima del costo annuale dei danni causati dalle specie invasive: si tratta complessivamente di 126 milioni di dollari, una cifra che – personalmente – riesco a immaginare solo con fatica.
Quando è completamente fuori controllo – ovvero quando non ha un ovile dove tornare al fischio perentorio del capraio, come nel caso in questione – la capra diventa una specie invasiva, perché estranea alla fauna selvatica nostrana.
L’unica soluzione consiste nella sua eradicazione. Ovviamente non si tratta di un intervento facile, ma esistono diversi metodi sperimentati con successo in oltre un centinaio di isole sparse in tutto il globo: ci sono riusciti persino a Lana’i, nel lontano arcipelago delle Hawaii, che con i suoi 360 kmq di superficie sembra un immenso continente in confronto alla microscopica Alicudi.
A chi spetterebbe il compito? Più di metà del territorio dell’isola ricade nel perimetro di una Riserva Naturale Orientata, istituita con il D.A. 484/44 del 25 luglio 1997 e assegnata alla gestione del Dipartimento Sviluppo Rurale e Territoriale della Regione Siciliana (l’ex Azienda Forestale, per capirci). Il regolamento della riserva parla chiaro: la presenza di questi animali è incompatibile con le finalità stesse dell’area protetta, designata per la conservazione di una flora ricca di endemismi e di specie rare.
L’ente gestore dovrebbe pianificare un intervento simile a quello avviato nell’isola del Giglio dal Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano per eradicare i mufloni (che poi sono stretti parenti delle capre).
Naturalmente, questo non accadrà. Alicudi è infatti una delle tante riserve “fantasma”, designate sulla scorta della Legge Quadro n. 394 ma – di fatto – “congelate” nel momento in cui sarebbero dovute passare a una fase operativa attraverso l’affidamento a un ente gestore. L’ex Azienda, oggi Dipartimento, non dispone però di un presidio né di personale sull’isola; in più di vent’anni, non ha investito un euro per valorizzarne il patrimonio ambientale, per promuoverlo come attrattore di un turismo sostenibile, per ampliarne e diffonderne la conoscenza; sorge il dubbio che i suoi funzionari non abbiano nemmeno idea dell’esatta ubicazione geografica di questa riserva che, però, fa parte del medagliere di aree protette la cui gestione – a detta del suo sito web ufficiale – costituisce un vanto dell’ente. Ed è qui che le capre offrono lo spunto per affrontare una riflessione più ampia.
Oltre Alicudi, alle Eolie si contano altre riserve – Panarea, Stromboli, Filicudi – in carico al medesimo ente gestore che languono in un’inedia perdurante, e che di fatto rappresentano altrettante occasioni mancate per il nostro territorio. Non hanno prodotto sviluppo, né occupazione, non hanno nessuna visibilità e di conseguenza non attraggono visitatori né risorse; costituiscono soltanto un vincolo, che si aggiunge a quelli già esistenti in materia ambientale, derivanti dalla Rete Natura 2000 dell’Unione Europea.
Sull’altro piatto della bilancia ci sarebbe il Parco Nazionale, previsto dalla Legge 244 del 24 dicembre 2007. Che differenza passa tra una Riserva come quelle anzidette e un Parco Nazionale?
Un Parco Nazionale costituirebbe un ente autonomo con una sede nel territorio di competenza, e non negli anonimi uffici di un assessorato alla periferia di Palermo; assumerebbe personale locale, creando opportunità innovative per isole come le nostre dove l’unico sbocco occupazionale per molti giovani è andare a lavorare nelle strutture alberghiere; godrebbe di un accesso preferenziale ad assi e misure comunitarie, garantendo la possibilità di attrarre risorse e spenderle sul territorio a sostegno dell’agricoltura e dei prodotti locali, della pesca sostenibile, di un turismo presente gran parte dell’anno in una destinazione finalmente svincolata dal cliché – ormai desueto – del “sole e mare”.
Soltanto con le modalità di gestione di un Parco Nazionale, i vincoli potrebbero essere finalmente riconvertiti in una risorsa per rilanciare l’economia, ma anche e soprattutto l’immagine delle Eolie. Il mercato del turismo è in costante trasformazione, guarda sempre più alla sostenibilità, e le realtà competitive si adeguano alle nuove esigenze.
Molti tour operator, soprattutto quelli stranieri, si chiedono come mai nel nostro arcipelago non sia già istituito un Parco Nazionale; o addirittura quali altri luoghi del nostro Paese meriterebbero di ospitare oggi un Parco se non le Eolie, che vantano un patrimonio ambientale e paesaggistico di importanza internazionale?
Sarebbe l’ora che si affrontasse un dibattito serio su quale Parco vorremmo a misura dell’arcipelago. Ma temo, purtroppo, che l’argomento rimarrà relegato entro i confini di un dibattito sterile e anacronistico, mentre le isole continueranno a essere abbrutite da orde agostane di ragazzetti tanto abbronzati quanto inconsapevoli, e ad alienarci un turismo di qualità che il tempo rende sempre più esigente e selettivo.
Pazienza, ci resteranno le capre.