In collaborazione con la famiglia Iacolino e, grazie alla disponibilità dell’editore Aldo Natoli, una nuova rubrica del Giornale di Lipari . “Lipara MMXXV” ripercorrerà la storia delle Eolie attraverso gli studi e le memorie dell’indimenticato prof. Giuseppe Iacolino che grazie ai suoi libri resta un punto di riferimento per la cultura delle Isole Eolie. Cominciamo dalle curiosità, dal libro “Gente delle Eolie” : cos’era «Sutt’ô Palu» e perchè quel luogo veniva e viene ancora individuato così.
«Sutt’ô Palu»
Giovane o non più giovane, un Liparoto di razza che sente dire “Sotto il Palo” corre instintivamente a rievocare lembi d’estate, tuffi spericolati, distensive immersioni in uno specchio di mare largo e profondo. Tutto preso dal momento nostalgico, egli è persino disposto a non mettere nel conto le tre o quattro maleodoranti giummelle che, a ridosso, con la loro impertinente presenza pareva volessero incrinare la delizia di quelle mattinate d’incanto.
Perché “Sotto il Palo”? Toponimo quanto mai singolare per la sua stranezza. Si direbbe anche pedestre, e persino assurdo poiché nel termine non si coglie nessuno alcuno che sia in carattere con la conformazione del sito, con la colorazione della roccia o con qualche sbiadita vicenda che colà siasi maturata; così, vogliamo dire, come Pomiciazzo, Mònte Rosa, Sottomonastero.
Eppure “Sotto il Palo” ha la sua umile storia, vecchia forse di oltre settecent’anni, e protagonisti ne furono tante e tante pacifiche bestie da stazzo; una storia che è strettamente legata agli albori della rinascenza di Lipari quando la sparta comunità cittadina sbocciava speranza sullo squallore lasciato dai Saraceni.
Dall’alto del Castello, e con pieni poteri, su tutto e su tutti vegliava allora il vescovo col suo capitolo di monaci benedettini.
Non era impresa facile per lui, nella complessità dei suoi compiti, esser presente tempestivamente nelle varie città, ville, terre e casali disseminati su una si vasta diocesi feudale che dalle Eolie si estendeva a S. Lucia del Mela, a Patti e su sino alle altezze di Librizzi. Perciò egli, almeno per un più sollecito disbrigo degli affari di giustizia, servivasi di un certo numero di commissari, stratigoti e baiuli, gli uni per la conoscenza delle cause criminali, gli altri per le civili.
Al baiulo isolano, che era detto anche visconte o più semplicemente conte (uno di questi conti dovette possedere terre sull’altezza che da lui prese l’appellativo di Piano del Conte o Pianoconte), erano affidate molteplici altre incombenze quali il controllo delle terre censite dalla Chiesa, l’esazione delle decime “per Dio e S. Bartolomeo”, la vigilanza sui commerci, la repressione delle frodi che nei commerci prosperavano, e, infine, il sequestro e la custodia degli animali erranti; di quegli animali, cioè, che sconfinando dagli “erbatici” o pascoli comuni, oppure dai recinti padronali , si spingevano nei poderi coltivati e “dannificavano” le vigne, le messi e gli ortaggi.
Buoi, cavalli, asini, capre, pecore e maiali. Non è un’esagerazione, ma, nel Due, Tre e Quattrocenno e passa, nell’isola nostra c’erano più capi di bestiame nelle campagne che cristiani in città.
Abbiamo una copia delle medievali “Consuetudines scriptae huius civitatis Liparae”, una sorta di calepino giuridico contenente usi, diritti e obblighi consuetudinarî dei cittadini liparoti, e in esso si elencano le categorie di quegli animali ritenuti potenziali ‘‘dannificatori’’ delle colture.
Accanto ad ogni categoria è segnata l’ammenda da irrogare ai rispettivi negligenti padroni. E curioso sape-
re — e fa anche tenerezza — che i piccoli ancora lattanti sorpresi in terre di terzi, purché in compagnia di mamma vacca o di mamma asina, non comportavano penalita alcuna: “…pro quolibet centenario ovium, caprarum sive arietum tarenos auri duos et grana 10 ( =due tari d’oro e 10 grana); …pro quolibet centenario porcorum tarenos 5…
Davasi però il caso che non si fosse in grado, Ii per li, di identificare il proprietario responsabile del gregge incriminato, e allora il baiulo doveva provvedere a imbrancare le bestie, a condurle in città e ad allogarle in un apposito recinto.
Indi procedeva ad avviare I’indagine.
Questo recinto si estendeva lungo il settore orientale della spianata della ‘‘Civita’. Era definito ‘‘carcerem animalium’’, ma con termine specifico era chiamato “‘palum’.
Non si equivochi col “palo’’ di legno o di ferro che ha tutt’altra derivazione etimologica connessa alla radice ‘pag, pac, peg’ (pac-lum, palum) che propone I’idea del “conficcare’ e ‘stabilire”, come ‘pace’’ e “pagare’’. Il nostro
“palum’’ prende derivazione dell’etimo “‘pal’’ che ha senso di “largo”, quindi “spiazzo”’ o “‘radura”, parente strettissimo di “pala’’, arnese piatto e largo, e di “palese’’ che dicesi appunto di cosa aperta, chiara ed evidente.
Se dunque il nostro “palum’’ occupava la balza pianeggiante superiore della “Civita”, risulta ovvio che, per riflesso, la scarpata sottostante, fino al mare, assumesse il toponimo di “Sotto il Palo”.
Tutto qui.
E una storiella da due soldi, d’accordo. Ma, ad esser sinceri, non ci sembra priva di quel tanto di fascino, nostrano e casareccio, cui il Liparoto di razza è particolarmente sensibile.