a cura di Massimo Ristuccia
Estratto da Natura ed Arte 1897-1898
…Le montagne, che più al N. si tuffano immediatamente nel mare, qui sono precedute da una predella, la quale termina pur essa con ripido froldo. Lipari si affaccia fin sull’orlo della predella, schierando le sue bianchissime casine, minacciate a destra dal nero e torvo castello, quasi un branco di candide colombe che si si stringono alla vista del falco. Il porto, capace di accogliere tutta la flotta di Lilliput, fu dichiarato da uno straniero (A Freihern van Pereira, 1883) il più grazioso balocco del mondo. Lo sfondo è fornito da un rialzo, quasi una bassa e larga onda del terreno, che riavvalla alquanto per prendere l’abbrivo di un più alto flutto, formato dalla catena dei monti Chirico, S. Angelo e della Guardia, spina centrale dell’isola. Quella depressione fra le due ondate ineguali, detta valle di Diana, da un tempio scomparso della Dea cacciatrice, è la parte più ferace dell’isola e forse dell’arcipelago, tutta a frutteti, orti, vigne che danno il famoso vino di Malvasia, e cosparsa di villini de’ ricchi Liparesi. Lipari, nei suoi 37,63 ch.q. di superficie, può soddisfare a molti desideri e capricci de’ suoi visitatori. Certo a chi vi cercasse curiosità e svaghi cittadineschi ben poco può offrire la minuscola sua metropoli. L’arte nel senso, non dirò proprio, ma più limitato e ciceronesco della parola, non possiede che qualche pittura dell’Aldobrandi, pittore quattrocentista, nella cattedrale; lo sport si riduce al concerto comunale, in piazza, nella domenica, e alla corse a nuoto de’ monelli, i quali, però, è giusto osservare che danno mirabili prove di destrezza e resistenza; un qualche interesse edilizio si riscontra nelle anguste viuzze, che perennemente ombreggiate, procurano il più desiato refrigerio della vampa assidua del sole pseudotropicale. Ma l’archeologo classico vi troverà avanzi considerevoli di tombe greche e di bagni romani, presso il palazzo vescovile, e traccie del tempio di Diana nel mezzo della valle a cui diè il nome; il romantico vi ammirerà il grandioso e pittoresco castello, eretto dai Normanni, ea cui arrecò caratteristiche aggiunte ogni posteriore dominazione. L’alpinista, nell’ascensione de’ diversi culmini, in specie del S. Angelo, saggerà il suoalpenstock e dal vertice 595 m. emulerà i trionfi dell’eroe di Tarascona; però il cultore e il dilettante di paesaggio proveranno la più gradita sorpresa nell’inarrivabile panorama che si spiega su tutto l’arcipelago complessivo sino alle coste della Sicilia e a quelle della Calabria. L’igienista e il valetudinario dovranno visitare lungo il lato occidentale dell’isola le sorgenti termo-minerali di S. Calogero, col recente graziosissimo stabilimento, e le stufe di Bagno Secco, per i bagni a vapore. Il mineralista, infine, e lo speculatore si recheranno all’estremo capo NE. per conoscere il famosa campo bianco, d’importanza unica per la produzione della pomice, di cui fornisce la copia ultra e la qualità extra a tutto il mondo.
Da Lipari passeremo a Vulcano, costeggiando all’E. il canale frapposto, largo 800 e profondo 54 metri, in mezzo a cui si drizzano due scogli, quasi stipiti d’una porta, o piedritti d’un arco colossale.
Si affonda nel così detto Porto di levante, piccola ascella fra il corpo principale dell’isola e la sua appendice o figliazione di Vulcanello. Nella giuntura, fra queste due parti, apresi l’unica piana e l’unico tratto coltivato, che è poi a vigna. Il resto è tutto un ammasso di lave, di lapilli, di ceneri di fanghi e, soprattutto, di scorie, refrattarie ad ogni vegetazione, di cui cercano mascherare la deficienza con strie e macchie de’ più vivaci colori, ottenuti a forza di ossidazioni. Però qua e là vi sono stati piantati negli ultimi tempi de’ giunchi e delle ginestre, cui è stato commesso l’ufficio di screpolare e macinare le roccie e prepararne uno strato di humus alle futuribili coltivazioni. Presso il debarcadero è la raffineria di zolfo, già della famiglia Nunziante, oggi dell’inglese E. Narlian. I duecento abitanti sono quasi tutti impiegati nel raccogliere il zolfo, l’allume e il borace delle pareti del cratere più recente, detto il gran cratere, in cui perciò sotto ogni riguardo si concentra l’interesse dell’isola. Al tempo in cui la visitò lo Spallanzani essa era del tutto deserta, com’egli dice, non v’era indizio che giammai fosse stata abitata. Però anche oggi, oltre la raffineria anzidetta e la casina del Sig. Narlian, non vi esiste alcun altro fabbricato. I minatori vivono a modo di trogloditi nelle caverne naturali, alle cui aperture adattano le imposte. Fino all’agosto 1888, Vulcano si ebbe in conto d’un morto, o, almeno, d’un moribondo oppresso dal sonno più letale, non dando abitualmente altri segni di vita che leggieri russi e sospiri. Qua e là, per vero dire, avveniva talvolta qualche evacuazione di fango, qualche emanazione di gas, qualche gettito di fumo, in specie nel così detto piano delle Fumaiole, tra il gran cratere e il Faraglione verso Vulcanello. Dal fondo del cratere si rifletteva durante la notte un pallido bagliore, e in un certo angolo a SE. si era visto talora balenar qualche vampa.
Quando improvvisamente, il 3 agosto di quell’anno , il vulcano, o meglio Vulcano, si ridestò e cominciarono formidabili eruzioni, che si protrassero quasi continue fino all’ottobre, e che, tratto tratto, si sono rinnovate fino ad oggi. Tuttociò ha sconvolto ogni cosa (prof. Mercalli 1 maggio 1892). La vita cosmica del paese ha interrotta quella industriale e commerciale di esso; e nella speranza che si tratti d’un ultimo parosismo, imprenditore e operai stanno aspettando che il monte ripiombi nel suo letargo, per ripigliare a spese di lui le operazioni estrattive. Chiuderemo col dire che esso ha un’area di 21,22 ch. Q. e che il suo culmine, Monte Aria, sale fino a 500 m.
Panarea e Stromboli
Retrodendo a N. e ripassando avanti la costa orientale di Lipari, ci spingiamo a NE. Fino a Panaria o Panarea, che sembra l’antica Ichesia.
Essa è la principale d’un piccolo arcipleago a sé, di cui forman parte Basiluzzo, Dattilo, Lisca Bianca, Lisca Nera, lo sciame di scogli detto le Formiche, Bottaro, Panarelli e altri singoli frammenti. L’unica abitata da un qualche centinaio di agricoltori e pescatori è appunto Panaria. E’ tutto un ammasso di lava basaltina, con una fodera assai stracciata di tufi , che dal lato occidentale si precipita a picco, dall’orientale scende per tre larghi gradini, successivamente di 200, 100, 50 m. per terminare con breve dirupo nel mare. Il miglior approdo è Cala Junco al S., dove le forme prismatiche o cilindriche dei basalti appaiono più regolari e spiccate, pigmeo modello dell’Argine dè Giganti d’Irlanda. Si può abbordare anche nel lato orientale, dirimpetto al piccolo villaggio di S. Pietro o di Vallata. Quivi la lava è invece spezzata in enormi massi rettangolari, accatastati in disordine gli uni sugli altri, quasi rovina d’un muro iperciclopico, e del mezzo, di esse si sviluppano, contorcendosi, moltissimi ulivi, principal produzione del paese, che dà inoltre qualche po’ di biade e di vino. Sul fianco occidentale si attaccano degli altri ulivi, dè caprifichi e delle opunzie.
Come dicemmo, Panaria e il suo corteo si credono formati dallo sprofondamento di un’isola maggiore, di cui resterebbero fuori quai capisaldi; ma i moderni geologi vi riconoscono un complicato intreccio di più crateri, e noi non possiamo, senza uscir dai limiti della Geografia descrittiva, entrare nelle loro sagaci disquisizioni. L’area n’è di 2,44 ch. Q. e il suo culmine di 410 m.
Proseguendo nella stessa direzione, s’incontra Stromboli, l’antica Strongylon, dalla sua forma rotondeggiante, sentinella avanzata dell’arcipelago verso NE.; non possian dire sentinella morta, perché è invece la più viva di tutte; e anzi il suo cratere, per continuità , è il più attivo d’Europa. La forma dell’isola è la più semplice; è tutta un cono vulcanico, di lava basaltina, per la maggior parte allo scoperto, ma in qualche tratto rattoppata da pezze di tufi e, in qualch’altro, impiastricciata da placche di scorie . La parte superiore ha la figura di un bocciolo rotto, con frastagliature aguzze e taglienti, che è appunto il cratere originario e generativo del vulcano, ora spento. Quello in attività è un cratere secondario, apertosi lateralmente a NO., all’altezza di 750 m., mentre gli orli del primo levano le loro punte a 926 e 918 m. La singolarità delle sue eruzioni ha fatto si che esse abbiano dato il nome comune a una frase speciale de’ vulcani, detta appunto stromboliana. Le eruzioni sono discontinue, con regolarità ritmica dei 26’ ai 30’. Precede un rumore come di assi travolti, cui succede un sibilo analogo a quello d’una caldaia a vapore che si scarichi. In cinque minuti il cratere s’ingombra di fumo. Può presenziarsi il fenomeno dall’orlo, con risultato e senza pericolo, solo quando spirano venti del quarto quadrante, i quali sgombrino il cratere dal fumo e lascino vedere la direzione de’ materiali eruttati. In tal favorevole caso si scorgono le fessure del fondo e delle pareti illuminarsi, e quindi filtrarne materie fuse e incandescenti che si riuniscono in una gran bolla, la quale, salendo, si avvicina all’orlo senza però traboccare, finchè improvvisamente si squarcia, si sgonfia, scompare per le stesse fessure, e nello scoppio lancia frustoli di lava, arrotondati in bombe o contorti in scorie, insieme a sassi, lapilli e ceneri, di cui però la maggior quantità ricade entro al cratere stesso. Se gli antichi avesser conosciuto l’uso del tabacco, certamente avrebbero identificato il cono di Stromboli col fornello di una pipa titanica, fumata da Vulcano in persona o da qualcuno de’ suoi monoculi magnani. Invece, non sapendo a che altro riferire le boccate intermittenti, vi riconobbero la canna del camino che cacciava periodicamente le sue enormi faville in cadenza col mantice della ciclopica fucina.
L’area complessiva dell’isola e di 12,62 ch.q.
All’ultime falde, e quindi ne’ suoi contorni, si adagiano parecchi villaggi il più notevole dei quali è S. Vincenzo, al NR., davanti al quale è la rada più frequentata dell’isola. La coltivazione è volta quasi esclusivamente alla vigna e alle ortaglie. Lungo le vie, le quali altro non sono che letti di torrenti, crescono faggi e pruni; più in alto ciuffi di vimini, ginestre felci, spesso ombreggiate da grossi caprifichi.
(Salina, Filicuri e Alicuri)
Volgendo ora a SO.; visiteremo le restanti tre isole che con Vulcano e Lipari compiono propriamente l’arco, cioè Salina, Filicuri e Alicuri. La prima fu detta dagli antichi Dydima, ossia gemella, perché essa è divisa una valle, la Valle Chiesa, in due parti eguali e per dimensioni e per forma. Sono due coni vulcanici coi vertici spostati alquanto al S., quasi due buoi aggiogati allo stesso carro, o le prove di due navi che vadano perfettamente di conserva.
Ambedue dal loro vertice scendono con un pendio assai ripido verso il S., assai più dolce verso il N. Quello ad oriente dicesi Monte Fossa delle Felci, o anche Malaspina, o anche Salvatore (859 m.); quello ad occidente Monte dei Porri, o anche Vergine (961 m.).
L’intermonzio è percorso da due fiumicelli di opposta direzione, che sono i più considerevoli di tutto l’arcipelago. Poiché a questo proposito è da osservare, che le Lipari mancano di corsi perenni d’acqua anche solo proporzionalmente considerevoli; e, atteso il buon numero di sorgenti che in esse s’incontrano, è da inferirne, che la maggior parte delle pioggie venga assorbita dal terreno e dispensata lentamente dopo il filtro attraverso le viscere montuose. Salina è appresso a Lipari la più estesa (26, 76 ch. q.) e la più popolata (5900 ch. q.).
Il qual fatto previene l’altro della sua maggior fertilità. La lava unita e scoperta si restringe in essa ai due cocuzzoli e al filone intermedio, che funzionò quale impluvio alle lave già eruttate dalle due bocche imminenti. Il resto è tutto coperto da una cotenna di scorie e tufi, che attesa l’età più matura dell’isola si mostra più disfatta e arricchita di sostanze organiche. Tutta la zona inferiore è coperta di vigne, interpolate da campi di legumi e da pascoli. Essa fornisce, in quantità anche superiore a Lipari, il vino di Malvasia. Nella parte orientale sono degli uliveti. Qualcuna delle sue vigne s’inerpica fino a 800 m. Le zone superiori sono pure coperte, o almeno cosparse, di felci e ginestre commiste di capperi.
In essa sono gli esemplari arborei di maggior dimensione, fichi, castagni e pini. La spiaggia meridionale presso Lingua permette la raccolta del sal marino, da cui le è derivato l’attuale suo nome. Delle parecchie località abitate, la più ragguardevole è Salina, o S. Marina, che costituisce comune. Le altre, menzionandole nell’ordine in cui s’incontrano cominciando da Salina verso il S., sono la già ricordata Lingua, al SE, Arenella e Seni, lungo illato S. Pollara, a NO., Malfa, al N. e Capo, al NE.: sette in tutto, da poter qualificare iperbolicamente Salina l’isola delle sette città.
Le altre due sono assai più divise, non tanto per distanza, quanto per profondità del mare frapposto, che fra Salina e Filicuri giunge fino a 1000 m.
Esse sono anche le più incolte e spopolate. Filicuri (9,55 ch. q.) chiamossi dagli antichi Phoenicusa, che, derivando la parola dal greco, indicherebbe fosse coperta da palme, derivandola dal fenicio, significherebbe fosse cosparsa da scheletri biancheggianti di guerrieri uccisi in chi sa qual fiera battaglia. Il fatto è che oggi di palme non ve n’ha punto, e il suo è volto quasi esclusivamente, s’intende né pochi tratti coltivati, alla produzione della segala e dell’orzo. V’ha pure qualche vigna e pochi alberi di fichi. A rovescio delle altre isole essa è deserta ne’ contorni, e gli 800 abitanti sono sparpagliati, senza formare alcun centro notevole, sui declivi interni. Culmina nel Monte delle Felci. A 773 m. Merita peraltro non meno delle altre una visita per le sue magnifiche grotte, due specialmente: la Grotta delle Colombe, a NO, così detta perché vi si recano a stormi quegli uccelli a bervi un acqua freschissima e la Grotta del Bue marino, all’estremità occidentale che prese tal nome, secondo lo Spallanzani, dall’essere stata soggiorno di foche. Alla prima si accede con canotti, per una fenditura trasformata in galleria da una volta di opunzie. La seconda è una delle precipue meraviglie naturali dell’arcipelago, e basti dire che, un po’ presuntuosamente a dir vero, vorrebbe emulare la Grotta Azzurra di Capri. Essa viene anche detta la Grotta di Eolo, e si pretende che quel re semidio in essa ricevesse, o rendesse giustizia sui sudditi solidi ed aerei. Vi s’entra con piccole barche, per un magnifico arco naturale a tutto sesto, da una spalla del quale avanza una specie di predella, alta tre metri, che si presume fosse il posto d’un cane mastodontico o d’un drago titanico, guardiano dell’ingresso. La grotta è lunga un 70m., larga 50, alta 22. Per entro ad essa si diffonde tutta una luce verdastra, ed havvi un punto nel quale se una persona si collochi appare fortemente illuminata dal concentrarvisi di molti riflessi. E’ un posto assai adatto per chi vuol comparire ai suoi simili circonfuso da un nimbo sovrumano. Ma, uscendo dalla grotta e dirigendosi verso Alicuri, colla mente ancor piena di queste fantasie pagane, ad un tratto si è scossi da una visione sinceramente cristiana, anzi prettamente cattolica. Alla luce crepuscolare o al pallido raggio della luna si vede ritta in mezzo al mare una figura stracolossale di donna con un bambino tra le braccia. Intorno al suo capo aleggia e turbina un argenteo pulviscolo, ora effondendosi in ampie irradiazioni, ora raccogliendosi in più intensa aureola. Non v’ha dubbio, è la Madonna in persona. Ma giunti alla sua portata si riconosce in essa uno scoglio eretto sul mare per un centinaio di metri, naturalmente sbozzato in statua della Vergine, intorno a cui guidano le loro inconsulte carole miriadi di gabbiani ed altri uccelli marini.
Alicuri è delle Lipari la più remota verso occidente, la più abbandonata, la più incolta di tutte, ora e sempre, se ci volgiamo all’indietro, come ce lo assicura il suo antico nome Ericusa, cioè coperta di eriche. Nessuno, però potrebbe ripetere ora e sempre, se si volgesse in avanti. Certo che fin ad oggi non ha offerto che magri pascoli a scarsissime mandre. I suoi trecento inquilini, pastori e pescatori, abitano in meschinissimi casolari, di cui il gruppo più forte è il piano delle Femmine. Ma essa offre due buoni ancoraggi, anche a grosse navi, sulla costa meridionale; e intanto con basse e larghe muraglie di costruzione erette sui ripidi pendii, si cerca di presentare un appoggio ai detriti dall’alto, e di formarvi così delle terrazze artificiali nelle quasi assoluta mancanza delle naturali. Per siffatta guisa, verso il S. e il SE. si prepara il posto a vigne, a seminanti e frutteti, di cui appaiono qua e là i primi tentativi. Alicuri ha un’area di 5,24 ch. q. un’altezza massima di 666 m. La sua figura orizzontale è quella di un rettangolo, alquanto incurvato ne’ lati e smussato negli angoli; la verticale è quella di un cono semplice, culminante quasi esattamente nel centro, con pendii eguali in tutte le direzioni, e quindi ripidi per ogni verso malgrado la sua mediocre elevazione. E’, insomma la più massiccia, la più monotona, la più faticosamente praticabile delle isole Eolie
Ed essa è così conforme all’umile commiato che prendiamo dai nostri lettori o lettrici, cui auguriamo di far quanto prima, una bella gita alle Lipari e di persuadersi colla propria intelligente vista, meglio assai che per il nostro sbiadito referto, della verità di quanto asserimmo in principio sull’importanza scientifica e artistica di quell’arcipelago, il quale merita di esser annoverato fra le più segnalate meraviglie della nostra Italia meravigliosa.
Filippo Porena.