di Massimo Ristuccia
Regalo graditissimo con relativo ricordo e spiegazione del rag. Ezio Roncaglia.
PIOGGIA, VINO … E POMICE.
Non riesco a ” datare “ l’anno di questa foto.- Alcuni segnali danno delle indicazioni, altri li contraddicono. E’ certamente vecchia perché non c’è ancora il muraglione, c’è ancora la casa Amendola (ufficio Eolpomice). La casa Merlino è ancora versione uffici Saltalamacchia.
La Chiesa di San Cristoforo mi pare abbia ancora gli scalini sul lato nord del sagrato. La casa Cassarà, oggi “ Giallo & Rosso “, mi pare ancora nella versione Dogana, ex Banco di Sicilia. La casa Bacot, ed il vicolo Bacot, … sono ancora nella versione Bacot.
E c’è ancora la casa Sciarrone (oggi costruzione Palano) così com’era negli anni ’50. Così pure, mi pare, la casa De Pasquale.
La baracca Restuccia/Geoffray & Jacquet (oggi Ficarra-La Bussola) è ancora nella versione anni ’40. E si vede nettamente, bellissima, svettante, superba, la ciminiera del Mulino Aurora !
Il mese è certamente estivo o, massimo, di fine estate.
Lo dicono le barche coperte con teli di sacco e simili come si faceva una volta perché le barche erano solamente di legno (la plastica era ancora sconosciuta) e quindi soffrivano il sole terribilmente.
Lo dicono i ragazzini a riva immersi o quasi nell’acqua, due dei quali a torso nudo.
Ma la foto è interessantissima perché documenta un rito ormai scomparso.
Ogni anno, sotto i violenti acquazzoni di fine estate, il torrente Calandra scaricava in mare quantità notevoli di detriti di Pomice.
Non si dimentichi che il “ vallone Gabellotto “ nasce molto in alto e raccoglie, da nord, l’acqua di Monte Pilato fino alla fossa di Castagna, da ponente l’acqua di Monte Chirica e da mezzogiorno quella di S. Elmo (quello che noi chiamiamo, forse più giustamente, S. Eremo).
Tanta acqua, … insomma.
I detriti scendevano fino a mare con una violenza impressionante e con un rombo che faceva paura, trascinando fango e cespugli, insieme a grosse pietre, autentici massi.
Alcuni di questi, per il loro peso e per la felice, fortunata sagoma (a goccia) furono elevati al ruolo di “” pisa “” per alcuni palmenti locali.
Una di queste svolse brillantemente il suo compito, per lunghissimi anni, nel palmento del sig. Antonino Restuccia, ubicato dove adesso è sorta la nuova costruzione del sig. Angelino Favaloro ( … “ formaggino “ per gli amici) .-
Il sig. Antonino Restuccia era uno dei fratelli (Bartolo, Felice, Peppino, Erminia) del nonno di Massimo Ristuccia, oggi tanto meritoriamente noto per l’instancabile e pregevole opera di ricerca sulle immagini delle nostre isole, i cui risultati sono quotidianamente e generosamente offerti alla nostra pigra fruizione.-
A chi si chiedesse perché Donn’Antonino (e gli altri fratelli e sorelle, meno Bartolo) si chiamassero Restuccia, mentre Massimo si chiama Ristuccia, occorre spiegare che la differenza nella grafia del cognome (Restuccia contro Ristuccia) …. sta tutta nell’incolpevole pelucchio raccolto in fondo al calamaio dal pennino dell’ufficiale di Stato Civile (insomma dall’impiegato dell’anagrafe) … che produsse una macchiolina sulla “ e “ della registrazione del neonato Bartolo : che, così, si chiamò Ristuccia.-
Della sua “ pisa “ , donn’Antonino Restuccia amava raccontare che l’aveva recuperata, … “” sup’a Lena, doppu na gran ciumarata ““ .
Sì, … “ a Lena “ , perché è così che si chiama la non estesa superficie che sta davanti al torrente Calandra.-
In termini asettici, ma sbiaditi, oggi la indicheremmo … “” l’area costituita dalla foce, sempre ad estuario, del torrente Calandra “”.-
Il nome … “ a Lena “ ritengo derivi dal termina “” lenatura “” che nel nostro dialetto indica lo strato di materiale, il sedimento insomma, lasciato dai torrenti nel punto e dal momento in cui perdono la spinta.
Si tratta di un sedimento che, per la sua compattezza, (dovuta alla perfezione della sua curva granulometrica che solo la spinta progressivamente decrescente dell’acqua è capace di disegnare), esprime elevate proprietà pozzolaniche che gli indigeni ben conosciamo e da cui, quando possibile, ci difendiamo, … in termini di sollecita rimozione.
Infatti, una volta privata della componente umida, acquisisce una eccezionale consistenza, almeno corrispondente, se non superiore, a quella del tufo orizzontale.
Donn’Antonino raccontava che l’aveva trasportata fino al suo palmento, (ossia quasi dall’altra parte del paese), dopo averla imbragata con tavole e sugheri, tanti sugheri, fino a farla praticamente galleggiare.
Così, annacquata, appena appena a fior d’acqua, l’aveva rimorchiata con la sua barchetta, ovviamente a remi.
Nel suo racconto, colorito e pittoresco, appariva come un’operazione epica : ma sarà appena il caso di ricordare che, alla fine, le “ pise “ erano pietre che difficilmente raggiungevano o superavano i 200 kg. di peso !
Ma, allora, non c’era alternativa al trasporto via mare.
Va spiegato che la “ pisa “ faceva egregiamente il suo lavoro, non solo e non tanto per il suo peso, ma anche (e, forse, soprattutto) perché veniva sospesa all’estremità libera (l’altra estremità era imprigionata in un incavo nel muro) di una trave di castagno abbastanza lunga e gagliardamente robusta.
Quindi ( non sapremo mai se scientemente o meno) sfruttava massicciamente il principio della leva !
Lo sfruttava in maniera ibrida perché aveva sì un braccio di leva molto lungo, ma era il fulcro ad operare la compressione dei “ raspi “ ammucchiati, con furbizia contadina, nella prossimità massima dell’estremità opposta, ossia quella imprigionata.-
E’ superfluo ricordare che i “ raspi “ erano ancora molto ricchi di acini e di succo : la pigiatura con i piedi e con il solo peso dell’uomo, produce una spremitura sempre molto dolce, parziale ed incompleta.
La trave, dopo avere svolto il suo lavoro per un’anno/stagione, presentava una certa curvatura verso l’alto, quasi una “ ruga “ a dimostrazione della sua fatica.
E, allora, l’anno appresso veniva girata con la curvatura verso il basso !!!
Merita una riflessione come l’inventiva della gente supplisse all’assenza di mezzi, di strumenti … e di conoscenze.-
La prima assenza era una qualsiasi forma di energia, … che non fosse la forza di gravità.
Non c’era la corrente elettrica, e non si conosceva l’uso dell’idraulica : il lavoro che faceva la “ pisa “, con l’intervento di almeno due uomini esperti ed il ricorso a tecniche rudimentali, tanto ingegnose quanto faticose ( sto pensando … “” o vriuolu “ ), oggi l’avrebbe fatto, senza fatica e con l’intervento di un ragazzotto, un crick idraulico, reperibile sul mercato a meno di 100 euro !
Il mio Papà, che veniva da una famiglia contadina del Pinerolese, diceva che, appena appena fuori dalle isole, (cioè anche in Sicilia, per esempio nel catanese) si usavano, e con successo, i torchi … !
Ma io ho nettissimo il ricordo che, da noi,, tutti erano pronti a giurare che l’uva pigiata con i piedi degli uomini, (anziché con altre diavolerie meccaniche e marchingegni più moderni), …. dava luogo ad un vino di ben altra caratura e di ben più nobile levatura …. !
Assunto tutto da dimostrare e … difficilmente dimostrabile.-
E, suppongo, … mai dimostrato !
A ben pensare, con un tocco di fantasia, paradossalmente abbarbicata alla realtà, ed usando terminologie dei nostri giorni, quella con i piedi delle persone, …. potrebbe essere definita oggi …. “” pigiatura biologica “” !!!
Torniamo alla foto.
Insieme ai detriti, alle tante pietre ed a qualche masso, l’acqua portava a valle, e poi a mare, anche una grande quantità di Pomice in pezzi.
Materiale pregiato, sia in termini di pezzatura (sempre superiore al pugno), sia in termini qualitativi perché accorpava alla struttura cellulare una densità molto più prossima a 0,5 che ad 1,o : e, quindi, tra il resto, galleggiava gagliardamente.-
Questi pezzi venivano recuperati velocemente, e quasi contesi, dai diversi “ raccoglitori “ prontamente intervenuti.-
Baldi giovanotti che, coniugando fatica, urgenza ed intelligente destrezza, li prelevavano dalla superficie del mare, a mano, un pezzo dopo l’altro, prima che le correnti li disperdessero.
La foto mostra infatti, una barca sovraccarica di pezzi e mostra anche i ragazzini che, a riva, fanno a gara a catturare quei pezzi giunti quasi al bagnasciuga.