L’album dei ricordi: le isole di Lipari nel 1874

di Massimo Ristuccia

Autore principale F. Salino

Estr. da: Bollettino del Club alpino italiano, vol. 8 (1874), n. 22.

ISOLA DI LIPARI

isole lipariMisura di superficie 44,414,304 metri quadrati, ossia 44 e ½ circa, dei quali 13 chilometri e metri quadrati 46,366 di terreni aridi, con un tributo erariale pei coltivati di lire 83,873 centesimi 92. La sua maggiore lunghezza può avere 9 chilometri, e la larghezza media 5, tenendo conto delle curve dei monti. Nella sua metà al sud, tramezzo ai monti Sant’Angelo e Pelato, prolungasi un braccio che finisce col Capo di Monte Rosa.

Di periferia intorno alla sua base conta 30 chilometri, che si percorrono in barca in sei ore. Mentre è la prima in grandezza, è la quinta in altezza, avendo il suo punto culminante a soli metri 603 circa sulla sommità di Monte Chirica, dove trovasi un segnale trigonometrico. Però alla sua estensione unisce pure un ammasso di altitudini raggruppate senza interruzioni, come si può rilevare dai seguenti dati. Incominciando dal sud-ovest andando a nord-est ha Monte Guardia (cratere), con segnale ai metri 369; Monte Giardina, metri 283 (cratere); Monte Sant’Angelo (cratere), con segnale a metri 594 circa; Monte Chirica suddetto metri 603, con fondo del cratere, o Fossa delle tre pecore, a metri 509. Monte pelato o Campo Bianco, grande cratere, il cui orlo superiore misura l’altezza di metri 488, ed il fondo del cratere, o Fossa delle rocche rosse, metri 300. Oltre questi monti, verso la metà dell’isola avvi il Monte Mazzacaruso di metri 322 circa, con segnale, ed al nord-est della città il Pizzo Mazzone, con segnale elevato metri 239.

La sua popolazione, secondo il censimento del 1871, conta 7,671 abitanti, scompartiti in numero di 5,847 nel centro principale, cioè 1,465 nel rione San Giuseppe; 3,167 in quello di San Pietro e 1,215 in quello di San Nicolò, ed i rimanenti 785 abitano la borgata di Canneto a nord-est; 473 nella regione Pianoconte 566 in quella di Quattro Pani nel centro.

Nel centro principale fiorisce il commercio, essendo che le altre isole versano quasi tutte i loro prodotti in Lipari, eccettuata l’esportazione del vino da Salina e Stromboli, che viene effettuata dai propri abitanti; ed il loro principale mercato di tal genere è Napoli, non che Palermo e Messina. L’industria dell’isola si può arguire dagli utenti pesi e misure, i quali sono in numero di 225, comprensivi 90 molini mossi dagli asinelli; 35 negozianti all’ingrosso, 69 al minuto, 1 con sole misure lineari. Gli uffici pubblici governativi sono rappresentati dall’ufficio del pretore mandamentale, dall’agente delle imposte dirette, dal ricevitore del registro e della dogana, dall’ufficio postale e dal delegato di pubblica sicurezza. Oltre gli uffici governativi si devono annoverare l’ufficio comunale e l’esattore dei tributi, l’appaltatore della posta, dei viveri militari, quello pei diritti di percezione delle pietre pomici (le quali rendono al comune dalle 12 alle 13,000 lire all’anno), del dazio consumo e sulla carne, il fornitore di foraggi, l’agenzia dei vapori ed il cassiere del Monte di Prestanza. Vi è anche un caffè bigliardo, tenuto da un ex-brigante relegato a vita con discreta pensione che gli passano i morali Borboni. L’attuale governo gli tolse la pensione, ma costui è uomo che fa buoni affari, ed è ora possidente.

Lipari è luogo di relegazione di coatti, essendovene più centinaia, i quali portarono nell’isola, insieme ai loro vizi, diverse industrie.

La forza pubblica si compone del comando della sotto-sezione dei carabinieri reali e di un distaccamento di linea fornito dalla guarnigione di Messina, non che delle guardie doganali comandate da un sottotenente.

Lipari è pure sede di vescovado, il quale tiene i suoi ricevitori doganieri in tutte le isole, meno Salina che si emancipò, per riscuotere le decime. Quella povera popolazione soffre immensamente di cotesto medioevale aggravio che, come crittogama, gl’impedisce lo sviluppo, e non serve ad altro che ad arricchire i nipoti del vescovo. Anche i terreni incamerati ne soffrivano, poiché non erano che sfruttati e malamente amministrati; ma ora che passarono nelle mani dei privati vigorosamente vegetano e si trovano abbelliti da vaghe casine.

In Lipari, per chi volesse abitarvi per qualche tempo, vi sono solamente una o due misere osterie, che potrebbero dare modesto alloggio ad una o due persone; ma però si trovano alcuni appartenenti mobiliati, che nella stagione autunnale vengono ceduti a modici prezzi, stantechè i proprietari in tale stagione abitano le loro amene campagne. Quando mi vi recai ne trovai due: uno composto di tre camere e cucina, con tutto l’occorrente di mobili e attrezzi, a lire 30 mensili; l’altro più ampio e più signorilmente addobbato a lire 50. Io scelsi il primo, che appartiene alla famiglia Rizzo. Facendo conoscenza di quell’ottima famiglia, ebbi il vantaggio di aver quasi sempre per compagno, guida e cicerone nelle mie escursioni il figlio maggiore, signor Antonino, egregio giovine che fece il servizio militare; gli alpinisti od i forestieri che volessero godere per qualche tempo di quell’ameno, quanto curioso soggiorno, potranno indirizzarsi al medesimo, oppure all’amico mio, il signor Cipriano Uselli, agente delle imposte dirette, od anche al signor Ambrogio Picone, agente dei piroscafi, persona gentilissima.

Il Lipari, relativamente, il vitto è a buon prezzo, in ispecie per l’abbondanza dei pesci che sempre guizzano e brillano dei più svariati colori ogni giorno sul mercato, e del vino di squisitissime qualità. La carne di bue si trova sempre, e così delle verdure che si raccolgono in orti sul piano alluvionale formate la spiaggia del Pignataro, ove sono diversi pozzi d’acqua non potabile, ma servibile per innaffiarli.

Inoltre si potrebbe anche prendere stanza nello stabilimento del Bagno di San Calogero, sito a 4 chilometri al nord della città, sia nella stagione della sua apertura, dal 1° maggio al 30 settembre, che nella stagione della chiusura, mediante opportuni accordi col municipio.

Gli abitanti sono cortesi e gentili, i contadini buonissima e modesta gente, i barcaioli discreti; una barca con due uomini si noleggia per cinque lire al giorno, e per dieci a vela, per le isole più lontane; per Salina si pagano due lire nella barca postale.

Di Lipari si hanno notizie fino a sei secoli avanti Cristo, e dei tempi mitologici leggiamo nell’Odissea, capo X.

Giungemmo nell’Eolia, ove il diletto

Agl’immortali Dei d’Ippota figlio,

Eolo, abitava in isola natante,

Cui tutta un muro d’infrangibil rame

E una liscia circonda eccelsa rupe.

Pare che con questi versi vogli descrivere il poeta l’isola di Vulcano dal lato di Ponente.

Mi dispenso dal fornire maggiori notizie, e di notare l’analisi dell’acqua minerale del bagno, le quali cose già pubblicò il Touriste nei suoi numeri 28 del 12 marzo, e 67 del 15 giugno 1872, nei quali il lettore potrà trovare altre notizie, e solo mi limito ad cenno delle mie escursioni in questa isola e nelle altre, dolente di non poter fornire maggiori indicazioni per aver smarriti gli appunti che sul luogo avevo preso.

Per salire sul Monte Guardia vi sono due strade, una ad ovest e l’altra a nord-ovest della città. Io scelsi quest’ultima perché si passa per Monte Giardina. In un’oretta si può arrivare percorrendo approssimativamente due chilometri sul piano e due in salita per un sentiero piuttosto ripido. Il Monte Giardina è come un contrafforte di Monte Guardia, più elevato di metri 86, su cui si addossa al nord-est, e la sua sommità contornata all’est da grosse roccie vulcaniche è un vasto piano semi-circolare crateriforme, entro cui prospera un’immensa vigna. Continuando a salire ad est per un chilometro, si giunge al culmine di Monte Guardia, ove si vedono delle grandi buche, divise da grossi ammassi di lave e ripiene di ceneri e tufo, formati un terreno polveroso finissimo, di color caffè, nel quale sono piantati le viti ed i fichi e stanno costrutte alcune casette. Questo punto presenta una stupenda vista, tanto più che trovandosi il più vicino a Vulcano permette di vedere tutte le particolarità di quella singolare e curiosissima topografia. Oltre il grande cratere antico, nel centro del medesimo si vede il bellissimo cono col suo cratere attuale, sempre fumante e circondato da un’arenosa valle e di una vasto altipiano in forma triangolare, sormontato dai tre lati da una cresta di monticelli rocciosi, e nel mezzo si innalza una specie di gibbosità, ciò che mi fa credere fosse nell’antichità un altro grande cratere, come spiegherò discorrendo dell’isola di Vulcano.

Trovai sul Monte Guardia un proprietario ed un colono; ad ambidue chiedemmo un sorso d’acqua, ma la era cosa preziosa che trovasi chiusa a catenaccio, ed ambidue a preferenza ci offrono del vino. Il colono si scusò dicendo che la chiave della cisterna la teneva il suo padrone in Lipari.

Nel discendere di colà, tra mezzo ai pietrami vulcanici d’ogni genere si trovano delle ossidiane che paiono pomici a forma basaltica, di color bigio-chiaro, e tanto lucenti che paiono faccette di cristallo inargentato.

Per recarsi al Bagno di San Calogero, dopo attraversata per la sua larghezza la città, si sale per una strada profondamente scavata tra i suddescritti monti e quello di Sant’Angelo a destra, e che, quando piove, serve di torrente, la quale conduce sul piano di Pianoconte e poscia discende al nord ove trovansi il Bagno a 150 metri approssimativamente di elevazione e distante un chilometro dal mare.

Il taglio di questa strada permette di osservare le materie delle quali è formato il monte in quella regione, tutta composta di piccoli detriti di trachiti e pomici d’ogni qualità con incastrati a tutte le profondità dei massi di lave, ora porose, ora compatte, e queste materie si trovano separate da stratificazioni tufacee, oppure da un composto di particelle terrose formanti delle stratificazioni inclinate verso le pendenze del monte; e siccome alcuni massi hanno gli angoli smussati, si può giudicare che la formazione del monte è dovuta tanto alle eruzioni dei tre vulcani menzionati, pei materiali lanciati in aria, quanto alle correnti acque. Più in alto a sinistra si vede che i piccoli monti furono tutti alterati alla loro superficie dalle emanazioni dei vapori acido-solforosi, poiché diversi si vedono coloriti in giallo ed in giallo-rossiccio. Il terreno superiore è quasi tutto di colore bigio e composto in massima parte di pomici triturate e lapilli, e quello che discende al Bagno è più solido, di roccie vulcaniche.

Il Bagno si compone dell’antico atrio romano ove scaturisce l’acqua, ed ove entrato per esaminarlo, in pochi muniti mi trovai con mia sorpresa liberato da un dolor reumatico in una spalla, che avevo colto due notti innanzi sul piroscafo venendo da Messina. Subito il vicino si trova il nuovo stabilimento a due piani fatto costruire dal municipio; nel piano terreno si trovano 18 camere coi rispettivi camerini pei bagni, divise da un ampio corridoio in due file, ed al primo piano non vi sono più che dodici comode camere, essendo il rimanente occupato dalla sala da pranzo, dalla dispensa e cucina ed alloggio delle persone di servizio. Quando lo stabilimento trovasi aperto si pranza alla carta, a prezzi modicissimi, che si trovano fissati in ampia tabella affissa nel corridoio in fondo al quale apresi un ampio terrazzo che guarda il mare e le isole di Salina, Filicuri ed Alicuri.

Altra casa laterale serve per alloggio delle persone di servizio dei bagnanti e dei poveri. Un piccolo orto trovasi annesso allo stabilimento; del resto non si vedono che roccie e terreni spogli di vegetazione, e sarebbe cosa molto bella, vaga ed utile se il municipio pensasse a fare delle piantagioni d’alberi tutto all’intorno, e che facesse spianare qualche sentiero per portarsi in certi punti poco discosti, ove l’orizzonte rimane più libero. E chi scrive vorrebbe che quell’illuminato municipio tenesse conto di questi consigli, dati da chi tanto si interessò e s’interessa per un migliore avvenire delle Eolie, senza verun interesse proprio, tranne l’amor patrio comune per movente.

 quadro statistico lipari

Al di là di un lato monte che sovrasta lo stabilimento a nord-est, e sullo stesso versante dell’isola a circa 200 metri sul mare trovasi altra grossa sorgente caldissima detta stranamente Bagno Secco. Per arrivarvi bisogna risalire a Pianoconte e per la regione Quattropani discendere alla sorgente. Ma a noi conviene ritornare a Lipari allo scopo di esaminare una sorgente, ora quasi perduta, la quale trovasi a metà via.

Varcato il solito bel piano che trovasi a nord della città, prendesi un ripido viottolo che passa rasente le falde meridionali del Monte Sant’Angelo, ed è lo stesso che conduce alla sommità di questo monte, e, prima di raggiungere il punto più alto dell’altro piano di Quattropani, s’incontra sul fianco del monte un abbeveratoio per gli animali, costruito in muratura col rispettivo canale pel getto dell’acqua; e questo ci prova senza dubbio l’esistenza di una sorgente; ma però ora non vi rimane altro che il muro e non più l’acqua. Continuando per la via si vede umida per un certo tratto, proveniente da uno scolo che esce disotto di un muro a secco che mantiene il terreno formante un piccolo piano; vi salii disopra e vidi per un buco quadrato sul terreno che di sotto vi è una vasta cisterna per metà riempita di terra, e da quella si scorge che l’acqua non è più trattenuta dalle sue pareti spezzate oppure bucate da un qualche invisibile fumarolo e si disperde in un terreno molto poroso. In un paese ove l’acqua potabile è tanto scarsa e tanto desiderata, sarebbe cosa utile che si cercasse di riparare a tanta perdita ricercando la sorgiva e ricondurla nei suoi canali. Superata la regione di Quattropani e lasciando a destra quella di castellar che si allarga alle falde di Mone Sant’Angelo, tutta composta e biancheggiante di pomici, ma però rivestita di verdeggianti vigne e frutteti, si attraversa un alto piano ove si trovano le una volta abbandonate terre del vescovado, e dove dagli scavi che vi si stavano facendo per la costruzione delle casine e cisterne, e per la piantagione delle vigne, n’esciva fuori un pingue terreno vegetale di una profondità meravigliosa, e solo frammischiato a massi di pomici di più di un decimetro di diametro, che venivano impiegate a formare i muricciuoli di cinta frammiste ad altre pietre più consistenti trasportate da altre parti. Appena passati questi terreni piani e vegetali, e quando s’incomincia a discendere il versante nord, apparisce un contrasto sorprendente; noi entriamo in una regione vulcanica in perfetta attività. Da tutte le parti del terreno escono gas acidi che ne modificano la superficie, da tutte parti vi sono fuori piccoli e grandi; in luogo il terreno scotta ed è molle come melma, in altri è tutto cristallizzato in bianco, e tali cristalli vengono chiamati gesso (Zeoliti dello Spallanzani), ed i coloni se ne servono per purificare il vino; in altri è di color bigio, bleu, giallo, rosso e da per tutto escono vapori fetenti, però non visibili; in altri è pieno di buche piccole e grandi scavate nelle roccie decomposte ( le stufe di cui parla lo Spallanzani), ove entrando si soffoca dal calore e dei gas che emanano, ed in un momento ci si trova molli di sudore. Forse da questi bagni a secco ne venne il nome alla sorgente che più basso incontriamo, la quale scaturisce ai piedi di un ammasso tufaceo bigio-scuro a perpendicolo più di 60 metri sopra la sorgente, consistente in una polla d’acqua bollente di un decimetro di diametro e che subito si scompartisce in diversi ruscelli rumoreggianti giù per le balze.

Fa meraviglia di vedere proprio all’orifizio della sorgente, nel punto dove l’acqua è più calda e che forma dei vapori pel contatto dell’aria, una cert’erba verdissima vegetare prosperamente e godere a farsi trastullare le sue tonde e carnose pampine su quel gorgoglio senza che appassiscano, che anzi, si vede essere il calore il suo elemento, giacchè più in basso ove l’acqua incomincia a raffreddarsi essa scomparisce.

Quest’acqua raccolta in vasche fatte appositamente in muratura, dava moto a diversi molini, ora abbandonati, che si trovano lungo il vallone, e lasciava attaccate alle pareti del primo molino ove la ruota idraulica girava delle incrostazioni del colore del tufo di dove scaturisce, dal che si conosce che le materie dalla medesima tenute in soluzione sono diverse da quelle dell’acqua del Bagno di San Calogero. Nella vasca di detto molino esistendovi dell’acqua raffreddata, ne raccolsi una bottiglia e la trovai potabile, avente solamente un sapore dolce. Gli abitanti di quella regione si servono della stessa pei loro usi domestici trasportandola in barili a schiena d’asino. Il municipio dovrebbe fare degli studi per condurla in città; o, se non questa, quella del Bagno di San Calogero.

Ritornati per la via fatta e giunti al sentiero che conduce alla sommità di Monte Sant’Angelo, vi salimmo passando per una vasta gora aperta dalle acqua fluviali raccolte nel grande cratere spento dello stesso monte. Se questa gora venisse solidamente chiusa affinchè le acque raccolte nel detto bacino non potessero uscirne che per infiltrazione nel terreno, io credo che la fonte di cui parlammo più sopra somministrerebbe una maggiore quantità d’acqua.

Sull’orlo di questo cratere che guarda il sud trovansi le rovine del telegrafo aereo che corrispondeva colla Sicilia, e percorrendo l’orlo verso est si vede in basso addossato alle falde del monte altro vasto cratere formato di lave colorite di rosso, e di fianco ad esso nella direzione del sud prolungarsi il Monte Rosa formante il vasto seno che serve di porto, col castello di Lipari, detto il Pignataro. Il lato nord dell’orlo innalzarsi alquanto, e sul suo fianco interno vi sono delle case rurali dentro le vigne; sulla sommità trovasi il segnale trigonometrico formato da una grossa piramide in miniatura. Da questo punto si scorge tutto il lato nord-est dell’isola, composto dell’alto piano di Castellar al nord, e dei monti Chirica e Pelato a sud-est. Tutta quanta tale regione è intieramente formata di pomici e lapilli bianchi, pomici che vengono a coprire le falde fino all’apice dello stesso Monte Sant’Angelo, e si vede che tali prodotti non sono tutti stati eruttati dal suo cratere, ma che in tempo dell’attività vulcanica venivano spinti dai venti nel mentre si trovavano per aria eruttati dal cratere di Monte Chirica. Il cratere di Monte Sant’Angelo eruttava lave compatte e pomici bigie.

Se avessimo dovuto continuare il cammino per quel lato, in un’ora saressimo giunti sul Monte Chirica, ma ci convenne di ridiscendere a Lipari. Altro giorno ci proponemmo di fare le ascensioni dei monti Chirica e Pelato al fine di completare le escursioni in tutte le parti dell’isola. Si combinò quindi di rifare la via intorno alle falde nord-ovest di monte Sant’Angelo, passare per la regione Castellar, salire sul Chirica, ridiscendere e salire il Monte Bianco, e giù per la ripida china di questo passare alla borgata Canneto per ritornare a Lipari. Questa escursione riescendo troppo lunga e faticosa, non potemmo avere per guida il caro Don Antonino, il quale però col mezzo di un prete che possiede una vigna si di uno dei contrafforti di Monte Chirica fece venire un figlio del suo colono il quale ci servì di guida e portò le provvigioni per la giornata.

Partimmo di buon mattino e verso le otto eravamo giunti alla casa colonica del prete, ove trovammo i coloni con molti figli da ognuno dei quali volevan farci baciare le mani. Quelli erano tutti meravigliati di vedere forestieri in quei luoghi, ove più di loro e qualche altro contadino non vedevano. La casetta era imbiancata e bene pulita, come lo sono tutte in generale in queste isole, costume ben diverso dal sudiciume della Sicilia. E ciò che rende somma soddisfazione al forestiero si è lo sguardo benigno e rispettoso con cui viene accolto da questa tanto semplice e buona gente, quanto servizievole.

Dopo una breve refezione compartecipata coi nostri ospiti, ai quali volemmo pure lasciare quella porzione di provviste che avevamo preparate pel pranzo onde i ragazzi si ricordassero di noi, il babbo volle servirci esso stesso di guida fino al Monte Chirica.

Giunti lassù vedemmo un bel bacino perfettamente circolare ed in piano orizzontale, contorniato da un orlo pure liscio, perché formato di pomici, ed elevato pochi metri sul piano orizzontale. Quello era il cratere di Monte Chirica che le acque pluviali riempirono delle stesse sue materie staccate dai fianchi del suo imbuto. Benchè le materie di cui è formato porose pure il contadino ci assicurò che quando piove il bacino si riempie d’acqua e resta un lago che dura per molto tempo.

Le pareti del cono non s’innalzano molto al disopra dei contrafforti del nord-ovest e sono coperti dalle felci, pianta selvaggia dominante nei luoghi elevati di tutte le isole; ma dal lato sud-est il cono discende per molto tratto fino all’incontro di un contrafforte che, discendendo fino a 350 metri di elevazione, si attacca all’orlo sud-ovest del grande cratere di Monte Pelato. Il contadino avendoci di lassù spiegato il passaggio che noi dovevamo percorrere, lo dispensammo di più oltre guidarci, ed egli ci avvertì di non seguire in un punto il sentiero perché costeggia un grande precipizio, ma prendere più a destra nelle vigne ove le viti vegetano ma molto scarse. Non ostante tale avvertimento, senza pensarci, i miei figli che mi precedevano mi condussero sull’orlo del precipizio formato da una profonda ruga verticale scavata dalle acque per più centinaia di metri, e che mette raccapriccio al pensare di avere i nostri piedi sopra un terreno sì friabile qual è quello formato dalle pomici, e che, se si fosse franato, nella nostra caduta avessimo pure avuto la nostra immediata sepoltura!

Giunti all’incontro dell’orlo del cratere di Monte Pelato, il più vasto di tutti, in un punto elevato non più di 350 metri, vedemmo un sentiero a destra che seguiva l’inclinazione della cresta di tutto quell’orlo pomiceo fino alla sua sommità di metri 488, e di rimpetto il fondo o fossa delle Rocche Rosse a metri 300, dove si vedono case e vigne e gente al lavoro, e più innanzi si vede come un fiume di rocche rosse che scendono al mare e formano la punta detta della Castagna. Forse quelle roccie o lave formavano la crosta del globo, e nell’aprirsi della bocca ignivoma vennero versate quel lato, nel mentre poi le pomici che venivano lanciate in aria a grande altezza e spinte da un vento dominante venivano deviate sul lato sud-est, e cadendo formarono l’alta parete di Monte Pelato, il quale, se comparisce tale guardandolo venendo di Messina, in realtà non ha che la sua base di 300 metri di solido, il disopra non è che una parete semi-circolare vuota nell’interno.

La nostra salita si effettuò su per la detta cresta a piano inclinato, e vedemmo che frammiste alle bianche pomici vi si trovavano dei grossi neri blocchi di ossidiana vitrea, ed uno dei quali che si trova deposto sull’orlo ai due terzi di altezza ha più metri cubi di grossezza, ed è alto più di 3 metri. Nel mentre noi salivamo per quella china alla sinistra avevamo l’inverno ed alla destra l’estate, cioè: un vento finissimo che saliva dal fondo del cratere ci gelava il corpo da un lato, ed il sole caldissimo ci scottava dall’altro; ma dei due conveniva ripararsi dal freddo fermandoci di quando in quando sul dosso meridionale al riparo del vento. Giunti alla sommità, ove fa spavento il vederci su di un’altezza verticale di 188 metri nell’interno del cratere, e nel discendere dal lato meridionale si vedono delle profonde buche a guisa di gallerie scavate nei fianchi del monte per raccogliere le pomici più belle e più grosse, delle quali ogni operario riempie un grosso costone e se lo trasporta a Canneto, ove un industriale francese le fa separare ed incassare intiere, oppure le macina ed in grande quantità le spedisce a Marsiglia. Quest’industria dà vita agli abitandi di Canneto.

Non è raro che in quelle buche siano rimasti sepolti gli operai che vi lavoravano, non ostante che le materie friabili siano industrie dalla pressione. Da tali buchi inoltre si vede che quella crosta di monte deve la sua origine a tutti materiali caduti dall’alto. E’ incomprensibile che Spallanzani non abbia conosciuto il più vasto cratere dell’isola, e che anzi dica di non esservi traccia di cratere sul monte da esso chiamato Campo Bianco.

Per una ripidissima discesa tutta solcata da profonde rughe fatte dall’acqua ed in mezzo alla vigne si discende al lido formato da un piccolo piano, ove trovasi la borgata Canneto, e di là valicando il colle di Monte Rosa, ove si vedono dei piccoli crateri nell’arena formati dai fumaroli, così chiamati perché emettono dei gaz, si giunge a Lipari passando poco distante dal fanale di porto, detto Casa Bianca, a luce fissa rossa, all’altezza di 35 metri, posto sopra una torre quadrangolare alta 6 metri. La sua posizione segna: latitudine nord 38° 28’ 41’’, longitudine est 12° 37’ 21’’.

Il monticello su cui trovasi il castello, delle chiese e case in rovina, per essere abbandonate, e che elevasi 37 metri, è formato di un blocco di lava vetrosa, che gradatamente discende verso la direzione di Monte Guardia, attraversando la città in forma di piccola collina o rialzo. Io credo che tale formazione sia avvenuta per una colata dì lava sortita dal cratere di Monte Guardia o di Giardina e che abbia formato un rialzo il quale è l’attuale monticello roccioso del castello.

Aggiungo qui, per memoria, che un uomo molto anziano mi raccontò che sul principio di questo secolo un terribile terremoto in Lipari e nelle altre isole, che Vulcano e Vulcanello facevano fuoco e che il mare entrò nella città inondandola intieramente. Ciò vuol dire che il mare si alzò per ben 15 metri. Un tale cataclisma venne confermato da un prete anziano di Salina, come si vedrà a suo luogo.

Facendo il giro dell’isola presenta i suoi lati nord-ovest a picco, come tutte le altre isole, ed è fiancheggiata da grossi scogli a guisa di fortezze staccati dall’impeto delle onde di ponente, uno dei quali che trovasi all’ovest, nelle vicinanze di Vulcano, detto Pietra Lunga, misura più di 30 metri di altezza. Vi è pure da visitare una bella caverna detta della Signora.

Mi dispenso dal notare l’origine tradizionale di questo nome, ma la è cosa patetica all’udirne la narrazione.

Per norma di coloro che vorranno percorrere l’isola noto qui le distanze approssimative dalla città alle diverse località, cioè: (tab. 1).

tabella alpino