Sommessamente
In un mondo dove ogni informazione viene analizzata, soppesata e spesso strumentalizzata, assistiamo a un dibattito sulla crisi a Gaza che rischia di perdere di vista la sua essenza più profonda: la sofferenza umana. Di fronte alle immagini di distruzione, di ospedali ridotti in macerie e di bambini che muoiono di fame, ci siamo trovati a discutere non su come fermare questa tragedia, ma su come etichettarla.
Si sollevano argomentazioni che mettono a confronto la situazione attuale con orrori storici del passato. Si citano Dresda, Hiroshima, i genocidi in Ruanda o in Darfur, quasi a voler stabilire una classifica del dolore, un grado di atrocità al di sotto del quale la nostra indignazione non sarebbe legittima. Ma la sofferenza non è un concorso a premi. La morte di migliaia di civili, la distruzione di una società e l’annientamento di intere famiglie sono catastrofi in sé, indipendentemente dal nome che diamo loro. La nostra reazione non dovrebbe dipendere da una definizione legale, ma dalla semplice e cruda visione del dolore.
Un altro punto di discussione, ugualmente disumano, riguarda la presunta “complicità” della popolazione civile. Si sente dire che i cittadini di Gaza sono responsabili delle azioni di Hamas, che hanno votato per loro e non hanno fatto nulla per liberarsi dal loro controllo. Questa è una logica tanto pericolosa quanto falsa. Attribuire la colpa della violenza all’intera popolazione civile significa cancellare l’individualità di milioni di persone. Ignora il fatto che la maggior parte delle vittime sono bambini, che non hanno mai votato. Ignora la realtà di una vita sotto un regime autoritario e un blocco totale, dove le opzioni sono poche e la paura è un fattore costante. La storia ci insegna che non si può e non si deve confondere la sopravvivenza con il consenso.
È arrivato il momento di superare queste discussioni che ci dividono e ci allontanano dalla vera urgenza morale. Non dobbiamo preoccuparci di vincere un dibattito dialettico, ma di non perdere la nostra umanità. La questione non è se si tratti di un genocidio o meno, se la popolazione sia colpevole o meno, o se il dolore di oggi sia “abbastanza grande” rispetto a quello di ieri.
La vera domanda è un’altra: possiamo, come esseri umani, accettare che tutto questo accada? La nostra responsabilità è smettere di guardare a Gaza come a un campo di battaglia politico o a un laboratorio di dibattiti teorici. Dovremmo vederla per quello che è: un luogo dove le persone muoiono, dove le vite vengono distrutte e dove è in gioco il nostro senso di giustizia e compassione. La nostra risposta non può essere un’analisi distaccata, ma un appello urgente per la fine della violenza e per un ritorno alla dignità umana.