L’Album del ricordi: I Coatti

di Massimo Restuccia

ESCURSIONE ALLE ISOLE EOLIE 1909

L.V. BERTARELLI (“ON MILANES IN MAR”) 1909

(I Coatti)

capocamorrista coattoDei coatti di Lipari dirò solo ciò che ho intraveduto in due visite brevissime che le circostanze non mi hanno permesso di prolungare ed approfondire, l’una fatta adesso, l’altra già dieci anni or sono in inverno. Nulla aggiungerò. Se il quadro pare troppo fosco per essere credibile non posso che dire: andate a vedere.

Una stradetta bastionata a feritoie si arrampica sul fianco della scogliera che domina Lipari, interclusa da postierle vedove dell’antica saracinesca. Il castello che stava sulla spianata non esiste più. C’è in suo posto, sulla grande piattaforma di 300 metri di diametro, un ammasso di casupole cadenti circondate da una cinta, che servono di prigioni notturne per i coatti.

Questi, che sono attualmente, dicesi, circa 500, alla sera verso le 17 debbono presentarsi in Castello e per la notte vengono rinchiusi nei “”cameroni”” . Al mattino escono e sono liberi di girare in Lipari, con certe restrizioni, ove col permesso delle autorità hanno facoltà di lavorare presso i privati quando lo vogliono e soprattutto quando trovano occupazione. Purtroppo, le occupazioni, che non sono numerose, sono quelle di cavatori, macinatori e trasportatori di pomice, faticosamente adatte per pochi. Lo Stato non fornisce loro che alloggio coatto in Castello, e 50 centesimi al giorno per il mantenimento.

Andai in Castello al cader del giorno, guidato da persona che vi ha le grandi e piccole entrate. Entrando vidi un corpo di guardia di soldati e uno di agenti di pubblica sicurezza, ed una casupola chiusa come un baule coi soliti cassettoni di legno alle finestre, sulla cui portineria serrata solidamente, è scritto “Carcere giudiziario”.

E’ un deposito per i coatti che hanno commesso qualche reato per cui debbano essere sottoposti ad un nuovo procedimento penale. Vi è pure un carcere disciplinare, che rimase a me inaccessibile per i coatti in punizione. Davanti si apre una lunga stradetta irregolare quasi senza pavimentazione, con alcuni vicoli laterali, formata da tuguri quasi tutti di solo pianterreno, dall’aspetto cadente di lazzaretto abbandonato. E’ un po’ una via di Pompei con intonazione infinitamente più triste perché alla solitudine che parla di memorie grandiose è qui sostituito il formicolo di un’umanità immonda e sofferente.coatti bertarelli

Tale è l’insieme delle prigioni notturne. Ciascuna di quelle casupole è formata da uno o due “cameroni”. Tirato il chiavistello di una porta mezzo sconficcata, mentre una guardia stava di fuori, entrai in un camerone ove i coatti erano già rinchiusi. Mi si affacciò un grande stanzone lurido, basso, in parte senza pavimento, addossato per due fianchi allo scoglio e perciò da due lati senza finestre. Il terzo è quello d’entrata colla sola apertura della porta. Il quarto ha una finestrella senza vetri ed una comunicazione larga ad arco ribassato che mette in una seconda vasta camera, nelle stesse condizioni d’aria mefitica, di mancanza di luce, di sgretolamento generale di miseria trasudante da ogni angolo.

Metà dello spazio era occupato da pagliericci senza lenzuola, a file di tre o di quattro , non soltanto lungo i muri ma anche in mezzo alla stanza: giacigli sconquassati dall’aspetto sudicio, ricettacoli di chissà quali colonie di parassiti.

Come fantasmi in quell’ombra terra, stavano ritti, perché non vi sono sedie né panche, a guardarsi, gruppi di coatti. Ma mano che il mio occhio si andava adattando a quel crepuscolo di cripta mi sentivo stringere il cuore di dolorosa sorpresa. E’ un’abitazione umana questa? – pensavo.

Qualche parola che io dissi sollevò da parte dei coatti un incrociarsi di proteste contro la loro vita. Pareva che attendessero qualcuno di sconosciuto in cui versare la piena delle loro amarezze perché andassero oltre quelle tristi mura, oltre quelle spiagge mute.

Uscii di là per entrare in un altro camerone. Le stesse cose, le stesse parole, la stessa opprimente impressione di dolorosa sorpresa. Quest’altro camerone è composto di due grandi stanze formanti gomito l’una coll’altra. La seconda è cieca, il piano del pavimento sta tre gradini sotto il livello della strada. Mi accorgo che non vi sono latrine ma soltanto dei vasi cilindrici alti 50 0 60 centimetri aperte cloache schifose, che appestano le due stanze ove soffocano d’estate e battono i denti d’inverno venti o trenta uomini.

Ma tiriamo innanzi. La mia guida mi spiega che i coatti se ne hanno i mezzi, si raggruppano in sei, otto, dieci; camorristi con camorristi, mafiosi con mafiosi, teppisti con teppisti, così come la loro mala sorte o le male loro amicizie li legano e prendono in affitto sempre nel Castello, dei cameroni di proprietà privata a quattro, sei lire al mese. La cosa è rimasta per me inesplicabile. Non comprendo come case private, le quali sono identiche nella miseria loro, a quelle che dà l’Amministrazione carceraria debbano venir affittate, soltanto per permettere delle riunioni non certo fatte per il miglioramento morale di quei disgraziati.

Entrai in uno di questi cameroni spaventevoli, davvero ancora più spaventevoli che gli altri, poiché il fatto del dover pagare vi stipa ancor più orrendamente i tristi inquilini. Aveva la camera da me misurata le dimensioni di 3,80 per 2,80 con 2,20 di altezza e conteneva sei giacigli. Essa era piena, con un piccolo passeggio tra le due fila di tre. Nel fondo questa camera aveva una latrina di 2 metri per 2 con 1,80 di altezza: cucina e latrina ad un tempo s’intende senza scolo. La camera ed il retro sono entrambe cieche, hanno per unica apertura la porta, chiusa di notte e ventilata dal solo spiraglio di una finestrella a inferriate di 40 centimetri per 60.

Anche nelle case private non udii che reclami, proteste, lamentele senza fine. Da una delle guardiole chiuse un povero diavolo mi diede un allegro “buona sera”. Lo salutai e gli strinsi la mano. Perché? Non lo so, ma davvero in quel momento non l’avrei stretta ad un quest’urino.

E ancora: perché? Non è più alto la responsabilità di crudeli e inutili sevizie?

Sull’estremo limite della piattaforma del Castello vi è una gran chiesa, la Matrice di Lipari. Entrai a vedere. E’ di una delle solite chiese meridionali , barocche, tutte imbianco candido a fondi celesti, senza valore artistico. Soltanto pittura è interessante. Comparve un pretino giovanissimo e gentile che mi accolse e mi mostrò le cose più sciocche con una compunzione ed una serietà che stentavo a prendere sul serio. Il sagrestano accese le candele alla nicchia di un san Vincenzo artisticamente deplorevole. Mi mostrò anche un pallio in argento di nessun valore ed una “tela di Raffaello dipinta su legno” da un Buonascopa qualunque. Queste sciocchezze abituali alla vista dei monumenti dove non c’è niente da vedere, mi riposarono un po’ lo spirito fisso ai coatti. Il coro invece e una sagrestia tutta intagli di noce, sono abbastanza belli.

Dal portone della chiesa, volto ad occidente, filtrano, strisciando il suolo, gli ultimi bagliori del sole morente, e rifrangendosi nei prismi di cristallo dei lampadari, dipingono sugli stalli severi, immersi nella penombra, vagolanti spettri, ondeggiamento di luci variopinte.

Sotto il coro, in una cripta, stanno ritti addossati alle pareti fredde, gli scheletri trentadue canonici come una macabra pittura cui lo spirito sovreccitato prestasse il rilievo del vero. Orrida visione di femori e di piedi mal composti, di braccia slogate, terminanti in mani cui sono cadute le falangi, di spaventevoli teschi in berretta nera. Di mandibole sgangherate, gli alveoli semivuoti, coi denti superstiti orrendamente sporgenti; minacciosa atavica espressione di guerra e di odio. Ancora penso: homus homini lupissimus.

Dunque da questo castello che alberga tanto dolore, non porterò via che ricordi dolorosi? Ohimè, l’ultima scossa che dovevo ricevervi mi è rimasta sul cuore.

Udite: davanti alla chiesa si stende un piazzale contornato di muraglioni che cadono a picco sul mare e su Lipari. Sulle mura smantellate dell’antico maschio, brucano l’erba meschina alcune capre, e di tanto in tanto chiamano e par che piangano.

A sinistra sorge una tetra infermeria munita di inferriate fino al tetto.

Dallo spalto a cui mi affaccio, immenso è il panorama, immenso e pieno di pace.

Il sole è già sotto l’orizzonte del mare, ma il cerchio delle acque non è ancora netto.

Lipari è sotto la Rocca già annegata nella cinerea nebbia dei fiumi vespertini delle case. Lungo la marina, fin dove l’occhio giunge, un bianco contorno di spume disegna la costa di Lipari e Vulcano.

Lontano, in alto, una vetta dorata e bianca: è l’Etna.

Mie ero andato scostando dalla guida. Un coatto che ci aveva seguiti, era presso di me, un barese dall’aspetto umile, povero e tranquillo; sembrava un contadino; l’occhio fisso, il viso smunto senza espressione.

Gli chiesi dolcemente: “ E così come va, povero diavolo?” Egli mi guardò un momento collo sguardo stesso di meraviglia con cui prima mi aveva guardato compassionare altri, e ad un tratto, come da un incastro tolto precipita l’acqua non più trattenuta, proruppe in parole che erano come il rintocco funebre di un’anima presso a spegnersi. “Come va, signorino? : Qui non si vive : si muore ogni giorno. Dobbiamo mangiare con cinquanta centesimi. Se vi lamentate sono pugni sul viso, calci nel ventre: vi mettono in prigione a pane ed acqua. Madonna del Carmine! Sono qui da tre anni ed ho ancora un anno; ma non ci arrivo. Io morrò e non rivedrò mai più il mio paese. Maledetta mia madre; se non fossi nato, non sarei qui”. E piangeva come un bambino, o piuttosto come un uomo disfatto, e s’interrompeva per bestemmiare.

Lagrime brucianti gli correvano sul viso, le sue mani secche non erano giunte a preghiera, ma contorte in un’imprecazione, esse avrebbero inconsciamente attanagliato il collo di un uomo. Quelle lagrime ancora mi stanno sul cuore. Qualunque fossero le colpe di quel miserabile, qualunque anche l’amplificazione sua nel dolersi, provai per lui una pietà scorata. La misura dell’infelicità per lui è colma. Gli posai una mano sulla spalla stringendogliela : non seppi trovare parole di conforto incrostato in quell’anima, che nulla potrà ormai più sciogliernela, neppure, forse, la libertà. Temetti un momento che nell’esplosione di tanta ambascia volesse buttarsi dal muro; ma nulla accadde. Probabilmente quel vinto neppure vi pensava. Il corpo suo viveva, lo spirito era stato assassinato da quatto anni di Lipari. Allora, senza rimorso ormai, posi del denaro, dicendo : va, bevi.

L. V. BERTARELLI.