Un viaggio alle Eolie nel 1950

Riceviamo dal prof. Elio Abatino e pubblichiamo la testimonianza di un viaggio indimenticabile alle Eolie. Il prof. Abatino ha diretto per alcuni anni il Centro di Microscopia Elettronica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, insegna alla Libera facoltà di Scienze turistiche di Napoli (di cui è anche Prorettore) e da quarant’anni dirige l’Istituto di Ricerca e Didattica ambientale-Ireda che si occupa della formazione dei docenti di Scienze Naturali in servizio.
Nell’estate del 1950 con 3 amici carissimi, Mario Miccolupi, Ciro Di Maio e Nello Gargiulo, del Liceo Classico Statale di Meta “Virgilio Marone”, allora succursale del Liceo di Castellammare di Stabia, decidemmo di fare un campeggio, perché spesso vedevamo arrivare a Sorrento da altri Paesi europei tanti ragazzi della nostra età, che si accampavano con una tenda o con dei sacchi a pelo, attrezzi che in quell’epoca non erano ancora molto conosciuti.
Allorchè il nostro amico del liceo, Ottavio Romano, partì per la Svezia servendosi dell’auto stop, fummo incoraggiati a organizzare anche noi un viaggio. Dopo varie discussioni scegliemmo l’Isola di Stromboli, anche perchè avevamo visto nei mesi precedenti il famoso film “Stromboli” di Roberto Rossellini e Ingrid Bergman, che ci aveva molto affascinato tanto che ne parlammo a lungo con alcuni professori. Pensammo che l’Isola era una meta interessante dal punto di vista storico, naturalistico, umano ed inoltre non era molto lontana per cui probabilmente il viaggio non sarebbe stato molto costoso.

Ci dividemmo i compiti per programmare nel modo migliore il soggiorno nell’Isola.
Io procurai una piccola tenda canadese, prestatami da alcuni amici boy scout con i quali avevo partecipato ad un breve campeggio a Bacoli, una cittadina balneare non lontana da Napoli, e preparai in pochi giorni un dettagliato itinerario naturalistico e storico per la visita delle Isole di Stromboli, Lipari e Vulcano. Consultai la guida rossa della Sicilia del Touring Club, le carte topografiche dell’Istituto Geografico Militare, quelle nautiche e alcuni volumi sulle Isole Eolie, che mi feci portare da mio padre, bibliotecario della Biblioteca Universitaria di Napoli.
I miei amici si fidarono di me. Il nostro compagno Nello Gargiulo procurò 2 lettere di presentazione per i parroci di Stromboli e di Lipari grazie a un amico sacerdote dell’Azione Cattolica di Piano di Sorrento, mentre Ciro Di Maio, una volta arrivati sull’isola, si sarebbe impegnato a pescare per procurarci il pranzo principale e così risparmiare, Mario Miccolupi procurò biscotti, dolciumi e cioccolato regali di suo cognato Carlo Di Leva.
Mi informai degli orari e del costo dei traghetti e preventivai che per 4-5 giorni di permanenza più il viaggio, la spesa si sarebbe aggirata al massimo intorno a 50 lire a persona. I miei amici accettarono e, dopo aver avuto il permesso dai nostri familiari fissammo la data del viaggio.

Partimmo la sera del primo sabato del mese di agosto col traghetto postale delle 20,30 da Napoli. I passeggieri erano pochi e ricordo che noi 4 eravamo i più giovani. Solo noi avevamo gli zaini e fummo subito notati. Molti ci chiesero dove andavamo e conosciuta la nostra meta ci raccomandavano di essere prudenti. Anche tre anziane signorine, professoresse in un Liceo di Milano, che erano dirette a Stromboli per una vacanza, anche loro dopo aver visto il film di Rossellini, sentendo i nostri racconti si avvicinarono e vedendoci così informati ci fecero tante domande sul nostro itinerario. Esse si divertirono a sentire le storie della nostra vita e ci offrirono il caffè e un dolce.
Appena la nave lasciò il Golfo di Napoli si cominciò a sentire la forza del mare agitato e ci fermammo a poppa per dare uno sguardo all’Isola di Capri e alla Punta Campanella che conoscevamo bene ma per la prima volta la osservavamo dal mare.
Ricordo che scesa la notte, osservando la schiuma prodotta dalle eliche del traghetto, vedevo venire a galla degli organismi marini luminosi, grandi quanto una pallina da tennis, di cui mi sarebbe piaciuto conoscere il nome e il loro ciclo vitale.
Trascorremmo la notte all’aperto e stanchi ci stendemmo sulle nostre asciugamani da bagno cercando di addormentarci.
Forse verso le 6,00 fummo svegliati dalle sirene del traghetto che avvertivano che stavamo per arrivare a Stromboli. Il Sole non era ancora sorto ma la pallida luce dell’alba permetteva di scorgere nitidamente la sagoma del Vulcano che di tanto in tanto dalla sua cima eruttava e si vedevano bagliori rossi. Fu una scena indimenticabile che ci fece rallegrare per la scelta del viaggio, e avremmo voluto immortalarla in una foto, ma non avevamo alcuna macchina fotografica.
Lentamente la nave costeggiò lo scoglio di Strombolicchio, uno dei simboli dell’Isola, e si avvicinò alla spiaggia di Scari fermandosi a un centinaio di metri dalla riva.

Mentre sulla nave noi e un piccolo gruppo di passeggieri ci preparavamo allo sbarco, sulla spiaggia alcune persone provvedevano a mettere a mare un grosso gozzo da pesca che ci avrebbe prelevati e portati a terra perché l’Isola allora non aveva un molo per attraccare.
Aspettammo che arrivasse la barca azionata da un solo rematore e con noi era anche un ufficiale di bordo che scendeva forse per consegnare delle cose agli agenti di Stromboli della compagnia di Navigazione.
Per non farci bagnare, una volta arrivata a riva la barca fu tirata sulla spiaggia dai pescatori e dai pochi abitanti che erano accorsi per offrire il loro aiuto.
Ad un piccolo bar prendemmo un buon cappuccino caldo e una grossa ciambella, poi rimessici dal lungo viaggio per mare cominciammo ad informarci sull’Isola dal cameriere e da un omaccione alto e robusto, Salvatore Di Losa, che si offriva di accompagnare i pochi turisti, anche portandoli in spalla se avevano delle difficoltà, in cima al vulcano che continuamente intimoriva con i suoi boati perché era spesso in eruzione.
Sapemmo che nell’Isola vi era solo il Villaggio Stromboli, un piccolo albergo sulla spiaggia di Fico Grande gestito dal Parroco Don Antonino della vicina chiesa di San Vincenzo e da sua sorella Caterina che avevano anche una trattoria. Vi erano inoltre un piccolo negozio di alimentari, che vendeva anche molte altre cose, e due forni che a giorni alterni facevano il pane. L’Isola ci apparve quasi deserta, in giro non si vedevano animali come gatti, cani, mucche o asini, vi erano poche viuzze non illuminate e tante case abbandonate dagli abitanti nel corso degli anni perché emigrati soprattutto in Australia.
Ci venne incontro il Parroco a cui consegnammo la lettera di presentazione del sacerdote di Piano di Sorrento ed egli, vedendoci con gli zaini molto gentilmente ci offrì una delle numerose case abbandonate per farci sistemare meglio e ci informò sull’Isola, sulla sua preistoria, sulla emigrazione in massa degli abitanti dopo il Secondo Conflitto Mondiale, su come salire sul vulcano e sulle poche emergenze da vedere oltre alle spiagge e al piccolo borgo abbandonato di Ginostra. Ci raccomandò all’unico pescatore, di nome Bartolo, per farci avere il suo gozzo a remi allo scopo di fare un piccolo giro lungo la costa, pescare e avere una buona immagine del luogo. Sulla spiaggia di Ginostra vi era una sola piccola casa semi distrutta dai marosi e dai terremoti, innanzi un recinto invaso dall’acqua, forse una piccola caldera abrasa dal mare, adattata a porticciolo.

Alla base della zona collinare rinvenimmo numerosi frammenti di ceramica probabilmente preistorica, pezzetti di pomice e schegge di ossidiana, l’antico vetro vulcanico che nel passato aveva arricchito l’economia delle Isole Eolie, inoltre avevo letto che sulla spiaggia vi doveva essere una necropoli di Età Greca e nelle vicinanze il villaggio preistorico di San Vincenzo di cui ci aveva parlato anche il Parroco. Al centro dell’Isola, vicino alla spiaggia e poco distante dalla Chiesa di San Vincenzo vi era la famosa casa colorata con calce rosa, dove nel 1948 avevano dormito Rossellini e la Bergman mentre giravano alcune scene del film Stromboli che ci aveva invogliati a venire su questa isola. Questa casa aveva la porta sul viottolo principale e affacciava dal lato opposto sulla spiaggia con vista di Strombolicchio. La chiave l’aveva la signora del piccolo negozio di alimentari che, su raccomandazione del Parroco ce la volle far vedere anche da dentro.
Dalla spiaggia partiva l’unica via, più larga e meglio mantenuta delle altre, che in salita conduceva alla chiesa di San Vincenzo, a tre navate con belle vetrate istoriate, e terminava su un bel piazzale a una decina di metri sul livello del mare. Il Parroco, che non era grosso di corporatura ma anzi agile e loquace percorreva la breve salita con una Vespa della Piaggio, che era l’unico mezzo a motore dell’Isola.
Il giorno dopo, di buon mattino decidemmo di salire sul vulcano dopo esserci muniti di una colazione da consumare in vetta.
Ci incamminammo lungo un dirupato sentiero parallelo alla Sciara del fuoco, tracciato sulla carta topografica dell’Istituto Geografico Militare, che avevo studiato in precedenza. I terreni lungo i pendii alla base dello Stromboli erano pieni di alberi da frutta abbandonati, molti dei quali erano carichi di fichi grossi, maturi e saporiti, e con avidità ne mangiammo tantissimi.
La seconda fermata fu all’0sservatorio della Marina Militare di Punta la Bronzo da dove era visibile la Sciara del Fuoco, una vasta depressione originatasi più di 5000 anni fa lungo la quale si riversano le emissioni di lava, i materiali pesanti e le scorie che di tanto in tanto il vulcano lancia in aria nel corso della sua attività. L’Osservatorio era aperto e in uno stato di abbandono che si protraeva da molto tempo per cui vi era polvere dovunque. Per salire fin sulla cima, che è a 750 m di altezza, impiegammo moltissime ore e vi arrivammo verso le 14,00. Ricordo che in alto vi era un’ampia spianata terrazzata al cui centro da diverse bocche alternativamente venivano lanciate in alto scorie e brandelli di lava. In basso si vedeva Strombolicchio, condotto del primo stadio del vulcano, oggi una piccola isola di 76 metri quadri che è ciò che rimane dell’antico edificio vulcanico; su di esso vive una lucertola endemica (Podarcis raffonei). In origine era alto una settantina di metri ma poi la sua cima venne spianata per effettuare i lavori di costruzione del faro, per cui l’isoletta fu ridotta a 56 m e venne realizzata una scala di oltre 200 gradini per collegare la spianata al mare. La salita al vulcano di Stromboli fu una camminata faticosa ma interessante per l’eccezionale spettacolo, che dà la possibilità di ripercorrere la storia geo-vulcanologica dell’Isola dal suo antico basamento, Paleostromboli, al vulcano attuale.

La vetta era ventilata ma faceva molto caldo. Durante la salita, che percorrevamo lentamente perché il sentiero era molto eroso dalle acque selvagge e pieno di sassi e spuntoni di rocce spigolose, non incontrammo alcuna persona anche perché in genere la guida portava qualche turista in cima a vedere lo spettacolo delle eruzioni di sera. In cima rimanemmo incantati dai boati, dai tremori e dai lanci di brandelli di lava e di scorie. Ci fermammo, bevemmo dalle nostre borracce e mangiammo un bel pezzo di pane fresco imbottito dalla signora degli alimentari la mattina prima di intraprendere la salita.
Anche la discesa non fu rapida pur essendo bene equipaggiati ed arrivammo sulla spiaggia verso le 19,00 ma in tempo per mangiare alla trattoria del Parroco.
Quando ritornammo nella casa che il sacerdote ci aveva offerto trovammo una interessante sorpresa. La sera precedente avevo raccolto in riva al mare, una delle sogliole che ivi riposavano e l’avevo adagiata sul muretto antistante la porta per poterla osservare meglio l’indomani con la luce del giorno, ma tornati dalla trattoria del Parroco era buio e mi accorsi che la sogliola era diventata luminosa. Sul suo corpo luccicavano tanti puntini giallognoli. Ricordai allora lo studio fatto da mio zio Giuseppe Zirpolo sui Batteri Fotogeni alla Stazione Zoologica di Napoli e, come lui mi raccontava, la differenza tra batteri luminosi post mortem e quelli viventi in sacche sotto gli occhi di alcune sepiole, che servivano per accecare il predatore e sfuggire alla cattura. Mi raccontava inoltre mia mamma che a tal proposito era nata una lunga diatriba tra mio zio e i Professori Mortara e Puntoni dell’Università, forse di Milano, perché la Professoressa Mortara sosteneva che i batteri si generavano solo post mortem, ciò che essa sosteneva le costò il ritiro dall’università dopo che la Professoressa Meissner, esperta di questi fenomeni, venuta dalla Germania a Napoli per dare un suo giudizio suffragò la tesi di mio zio Zirpolo.
La mattina seguente partimmo per Lipari, l’Isola vulcanica più grande dell’Arcipelago ed anche capoluogo politico e amministrativo. Il suo nome in greco antico era Lipàra o Meligunis che sembra far riferimento al miele. L’Isola si è formata con una serie di eruzioni vulcaniche succedutesi nel corso di millenni. La sua storia eruttiva subaerea è datata tra circa 267000 anni fa e il basso Medioevo, mentre l’ultima eruzione esplosiva del Monte Pilato, che è il vulcano più giovane, avvenne in due fasi: nel 776 e nel 1230.
Quest’ultima eruzione disperse su gran parte delle Isole spessi strati di pomice bianca, porosa e leggera molto ricercata.

Anche a Lipari incontrammo il Parroco a cui consegnammo l’altra lettera di presentazione. Egli si mostrò molto disponibile e ci promise di aiutarci a trovare una sistemazione. Più tardi un funzionario del sindaco ci diede il permesso di mettere la tenda nella Villa Comunale, chiusa al pubblico, che un tempo era l’Acropoli dell’antica città greco-romana.
Girando per l’Isola incontrammo per caso anche un giovane che abitava a Canneto, uno dei centri abitati dell’Isola, a cui ci rivolgemmo per chiedere informazioni su ciò che di importante c’era a Lipari e dove potevamo raccogliere campioni di ossidiana e pietre di pomice. Ci disse che erano interessanti la Cattedrale di San Bartolo, il Castello, le cave di pomice di Monte Pilato, le Rocche Rosse, le antiche Terme di San Calogero e le spiagge. Incuriosito del nostro viaggio insolito per quell’epoca, ci disse che aveva un’Ape della Piaggio e gentilmente si offrì di accompagnarci gratuitamente col suo mezzo a vedere la cava di ossidiana dove raccogliemmo bei campioni che ancora conservo, quella della pomice e le Terme di San Calogero che non potemmo visitare perché erano chiuse.
Ritornammo al centro di Lipari dove prendemmo insieme un bel caffè. Prima di salutarci ci scambiammo gli indirizzi con la promessa di rivederci. Peppe, era questo il suo nome, ci indicò una trattoria di cui si fidava e il tabaccaio dove Mario Miccolupi, l’unico fra noi che fumava, comprò le sue sigarette, mentre io acquistai 3 o 4 cartoline illustrate e i relativi francobolli.

L’indomani raggiungemmo l’Isola di Vulcano, dove trascorremmo una sola mattinata. La sua formazione avvenne, come per le altre isole dell’Arcipelago, con una eruzione sottomarina nel secondo secolo a.C., mentre l’ultima eruzione è datata al 1889-90. L’Isola nell’antichità era chiamata Therasia, poi Hiera perché sacra al dio del fuoco Vulcano. Essa, non molto distante da Lipari, era quasi disabitata. Ricordo che salimmo sulla cima del gran cratere della Fossa a circa 300 m, dove rimanemmo affascinati dalla vasta depressione del cratere, dalle vistose fumarole e dalla veduta mozza fiato su Vulcanello e su altre Isole dell’Arcipelago.
Restammo seduti su un’ antica Bomba a Crosta di Pane eruttata dal Vulcano, dove mangiammo una ricca colazione che avevamo comperata a Lipari prima di partire.
Una volta scesi visitammo i resti dell’antica miniera di allume e facemmo una passeggiata lungo la spiaggia delle Fumarole o delle Acque Calde, che è bagnata da acque riscaldate da bolle di vapore sulfureo che possono raggiungere temperature anche molto elevate, e poi ritornammo a Lipari.
Prima di ritirarci nella tenda facemmo una lunga passeggiata nella cittadina e seduti ad un bar prendemmo un buon cappuccino e una grossa ciambella.
Trascorremmo qualche ora a parlare delle cose che avevamo visto e come concludere il nostro viaggio. Di comune accordo decidemmo di recarci a Siracusa e da lì ritornare a Napoli.
Il giorno successivo di buon’ora ci imbarcammo sul traghetto per Milazzo e per il Porto di Messina da dove raggiungemmo col primo treno Siracusa. Lì incontrammo vecchi amici, che vivevano in questa bella città e venivano a trovare spesso alcuni parenti a Piano di Sorrento. Essi gentilmente ci accompagnarono a vedere le cose più importanti della antica città greca, tra cui la Fonte Aretusa, una delle sorgenti della falda freatica che alimenta il fiume Ciane, famoso per la presenza del papiro (Cyperus papyrus) che cresce spontaneo nelle sue acque, il cui fusto veniva tagliato in strisce sottili fatte macerare per ore nell’acqua, poi affiancate e pressate fino a formare dei fogli su cui nei tempi antichi si scriveva. Per ricordo ne prendemmo una piccola cima.
In serata tornammo col treno a Napoli. Così si concluse un viaggio che è rimasto storico per noi. Un viaggio istruttivo che ci arricchì sotto tanti aspetti, naturali, storici, preistorici, che ci è stato utile anche nel corso dei nostri studi intrapresi.