10 marzo 1881 – Stefano Mollica
Qui riposa, nella pace di Giusti
Stefano Mollica
morto il 10 marzo 1881 di anni 76
martire della libertà italiana
logorò la sua vita nel carcere e nell’esilio
padre affettuoso amico del povero
meritò la stima di quanti lo conobbero
possa la sua memoria
tornare di esempio ai posteri.
Stefano Mollica, figlio di Giovanni, era un medico di Lipari aiutante nella Regia Università, chirurgo del primo battaglione della Guardia Nazionale; era nato a Messina nel 1807 da Giovanni e da Francesca Rodriguez dei baroni del Ponte. Aveva studiato medicina a Napoli con lusinghieri risultati.
Con R. D. 29 settembre 1833 Stefano Mollica veniva nominato Aiutante della Clinica Chirurgica dove cominciò ad esercitare la professione. Sposò donna Teresa Vitiello e l’unione fu ben presto allietata dalla nascita della figlia Fanny.
Nel 1846 in seno alla Settima adunanza degli Scienziati Italiani, il Mollica brillantemente relazionò sugli esperimenti da lui condotti nella Clinica di Napoli, di anestesia con l’etere. Di codesta attività di ricerca volta a “rendere insensibile l’infermo a dolorose operazioni chirurgiche” si compiacque il governo menzionando in particolare l’impegno dei dottori Mollica, Ciccone e Finizio per così fondamentale innovazione “degna della facoltà medica e cerusica napoletana la quale si è sempre segnalata in Europa”.
Oltre che terreno di scambi proficui nel campo culturale i Congressi degli Scienziati venivano in quegli anni assolvendo ad una preziosa funzione di stimolo per la formazione di una sempre più salda coscienza nazionale, tali che l’essere membro dei congressi degli scienziati italiani importava un silenzioso allineamento nelle file del partito liberale e doveva provocare più tardi le diffidenze della sospettosa polizia borbonica.
Chiamato come professore aggiunto alla Reale Università di Medicina, con real decreto del 10 maggio 1848 il Mollica fu promosso Ufficiale di II^ classe con onori e grado di 1^ classe del Ministero degli Interni per soprintendere alla parte sanitaria. Di tendenza liberale e forse anche animato da ideologie fortemente democratiche, quando il 29 gennaio del 1848 gli nacque la seconda figlia, le impose i nomi di Aurora Liberata: un presagio augurale per la sognata patria italiana e un’aperta sfida alla “tirannide” imperante; a pochi mesi dai fatti del 1848. Nel 1837 era stato coinvolto in un “affaire” legato alla morte di Giacomo Leopardi.
Stefano Mollica il 15 maggio del 1848, era sulle barricate di via Toledo e, a parere del pubblico Ministero presso la Gran Corte criminale e speciale di Napoli, fu proprio lui, “con la sua intemperanza”, a provocare lo scontro. Stefano colpì a morte il capitano delle guardie svizzere Amedeo de Muralt, sparando su di lui per tre volte. La prima volta lo colpì ad una mano asportandogli tre dita, la seconda ad una scapola ed infine alla fronte. Stefano Mollica, imprigionato subito dopo i fatti (arrestato il 26 maggio 1848), fu processo in ultima istanza nel 1853 (difeso dal giovanissimo avvocato Enrico Pessina) e condannato a 25 anni di ferri, con sentenza del 30 luglio 1853. Rinchiuso da prima a Nisida e poi a Montefusco, il 28 maggio del 1855 venne tradotto a Montesarchio, in provincia di Benevento, unitamente a Carlo Poerio, Nicola Nisco, Giuseppe Pica, Sigismondo Castromediano e altri. La feroce repressione seguita al fallito moto del 15 maggio 1848 aveva però non solo levato a sdegno i liberali europei e mosso il Gladstone a definire il governo napoletano la negazione di Dio eletta a sistema di governo ma perfino spinto i governi di Londra e Parigi alla rottura delle relazioni diplomatiche con Napoli, dovuta proprio alle rimostranze – inascoltate – dei rappresentanti dei due governi per la maniera con cui venivano trattati i condannati. Sotto il peso della condanna dell’opinione pubblica europea il governo si vide costretto ad una misura di grazia.
Alla fine del 1858, Ferdinando, in occasione del matrimonio di “Franceschiello” con Maria Sofia di Baviera, liberò tutti i condannati per i fatti del 1848-49, e li mandò in esilio perpetuo. Dei novantuno però solo sessantasei detenuti, tra il 15 e il 16 gennaio 1859, salirono a bordo del vapore “Stromboli” opportunamente disarmato perché in caso di rivolta non potessero servirsene, altri erano già morti, o avevano ottenuto il permesso di poter raggiungere altre sedi perché ritenuti non pericolosi. Otto erano i deportati che provenivano da Montesarchio, ventitre da Nisida, diciotto da Procida e diciassette da Santo Stefano. Accompagnavano lo “Stromboli” la fregata “Ettore Fieramosca” che sorvegliava la “Stromboli”, ed era fortemente armata, e il “Messaggero” un altro vapore che aveva a bordo la commissione alla quale era stato affidato l’incarico di eseguire le disposizioni del Re e che rientrò a Napoli dopo aver assolto il suo compito dopo che gli ultimi detenuti erano stati imbarcati a Santo Stefano.
“Lo Stromboli” e il Fieramosca proseguirono il viaggio fino a Cadice, dove bisognava trovare una nave che conducesse gli esuli a New York. Nella città andalusa i sessantasei deportati chiesero, con una lettera scritta da Carlo Poerio il 27 gennaio 1859 “asilo politico” al governo spagnolo che lo negò. Dovevano lasciare la Spagna e laborioso fu il negoziato che il vice console napoletano a Cadice Francesco de Ambrosi dovette affrontare per trovare una nave disposta ad imbarcarli e ad attraversare l’oceano. Dopo che un mercantile spagnolo ed uno olandese si erano rifiutati di trasportare gli esiliati contro la loro volontà, il difficile accordo fu raggiunto con il capitano Samuel H. G. Prentiss di Baltimora, che comandava il mercantile “David Stewart”.
Così dopo una sosta di 24 giorni nel porto spagnolo, i deportati lasciarono lo “Stromboli” e salparono con il mercantile americano che il “Fieramosca” seguì per circa 150 miglia e poi abbandonò per fare rientro in patria. Era il 20 febbraio 1859 e per la prima volta dal giorno del loro arresto i deportati non erano più sotto il rigido controllo della giustizia borbonica.
Ad essi occorsero due giorni di febbrili trattative col capitano Prentiss, deciso a mantenere l’impegno assunto, per convincerlo a non portarli negli Stati Uniti e a cambiare rotta verso l’Irlanda. Il 6 marzo il “David Stewart” entrò nel porto di Queenstown, un grosso borgo marinaro con circa settemila abitanti nella baia di Cork, dove gli esuli napoletani furono accolti amichevolmente.
il 27 marzo su una nave messa a disposizione dal governo inglese giunsero a Londra attesi e festeggiati. Nella capitale del Regno Unito, dove furono accolti dal Palmeston, dal Gladstone, da rappresentanti della Camera dei Lords e dei Comuni, dal rappresentante del Piemonte Emanuele D’Azeglio e da altri illustri personaggi, si era intanto costituito un comitato che coordinava la sottoscrizione per i soccorsi a favore degli esuli napoletani di cui faceva parlo lo stesso Gladstone.
Rientrarono a Torino il 18 aprile 1859. Il salvacondotto di Stefano Mollica fu emesso il 9 aprile 1859, a firma dello stesso D’Azeglio. In Piemonte il Mollica si arruolò col grado di tenente e agli ordini di Enrico Cosenz, nel I reggimento del Corpo dei Cacciatori delle Alpi organizzato da Giuseppe Garibaldi. Nella breve sosta a Torino egli ebbe occasione d’incontrare vecchi amici e di conoscerne di nuovi: Paolo Emilio Imbriano (1808-1877), Massimo D’Azeglio (1798-1866), Luigi Carlo Farini (1812-1866), Giuseppe Mazzini, Marco Minghetti (1818-1886). Con decreto del governo sardo del 7 gennaio 1859 Stefano Mollica veniva nominato ufficiale medico di divisione di II classe e prendeva parte attiva ai moti di Romagna del giugno-luglio dello stesso anno.
Nel corso del 1860 Stefano Mollica, entrato nei ranghi dell’esercito regolare piemontese, con ardimento si batté nella campagna dell’Italia Centrale meritandosi la medaglia d’argento al valore militare e la croce di cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia. Dopo l’unificazione rimase in servizio attivo in qualità di colonnello medico in Messina stabilendosi in via Cristoforo Colombo insieme alla figlia Aurora (Fanny si era sposa a Napoli) e con la seconda moglie Maria Salomè Collin. Fu proprio a Messina che il giovane liparese Bartolomeo De Pasquale, che aveva fatto il militare e aveva eroicamente combattuto nell’infelice battaglia di Custoza del 24 giugno 1866, ebbe modo di conoscere il colonnello Mollica e di intrecciare una relazione con la diciottenne Aurora Liberata. Dopo le nozze dei due, che si celebrarono a Messina il 25 aprile 1872, anche il cavaliere Stefano seguì la figlia e il genero a Lipari e insieme si stabilirono al n. 15 della strada del Municipio. Il 10 marzo 1881 terminò la sua esistenza terrena.