
La sezione Fidapa delle Isole Eolie “Le Sette Sorelle” in occasione della Festa Internazionale della Donna ha aderito ad un progetto “La Donna, non solo l’8 Marzo” promosso dalla Fidapa Distretto Sicilia. A tale iniziativa hanno partecipato le socie Macrina Marilena Maffei e Daniela Jannuzzi, attraverso due testi che vi propongo in seguito.
1) Socia Onoraria: Prof.ssa Macrina Marilena Maffei
Il diritto alla memoria delle donne di mare in Sicilia ; Il mare agli uomini, la terra alle donne, nella civiltà mediterranea dell’Occidente così è sempre stato asserito.
L’antica storia delle donne di mare delle isole Eolie contraddice tale affermazione e nel contempo demolisce tutti gli stereotipi riguardanti le donne di Sicilia. La storia delle pescatrici dell’arcipelago si perde lontano nel tempo. Già nel Trecento Giovanni Boccaccio nella sua opera più celebre Il Decameron afferma che tutte le donne di Lipari erano addestrate nell’arte marinaresca. Probabilmente di secolo in secolo, di generazione in generazione, le isolane continuarono il mestiere del mare ma le prime notizie certe risalgono all’Ottocento. Quando a vederle con i propri occhi mentre remavano o pescavano furono gli studiosi e i viaggiatori che visitarono le isole, come: Alexis de Tocqueville, Michele Lojacono Pojero e Luigi Salvatore d’Austria. A metà del Novecento è invece il documentario Bianche Eolie, realizzato dalla Panaria Film (1947), a fornire una traccia fondamentale della loro esistenza mostrando la scena di donne che pescano in mare. Tuttavia, negli anni Ottanta, quando hanno inizio le mie ricerche etnografiche la memoria delle donne di mare si è ormai inabissata. Soltanto il lungo rilevamento sulla cultura alieutica da me condotto di isola in isola ha consentito il lento riaffiorare della figura della pescatrice. Quale fosse l’ordito che intesseva la trama della sua esistenza lo raccontano le voci degli isolani: – «[Mio marito] era pescatore anche lui e abbiamo passato una vita assieme a pescare. […] tutta la notte a fare questo mestiere!» Rosa, 1926, pescatrice. Stromboli, 2005.- «Mentre succhiavo il latte andavo a mare. […Andavamo] tutta la famiglia, quattro fratelli, padre e madre.[Mia madre] ci allattava e poi lavorava come noi che eravamo figli. […] tutta la giornata, anche di notte» Giuseppe, 1909, pescatore. Lipari, 1985.- «Venivano con i sacchi pieni di pesci, le donne! Le donne![…] Loro andavano sole! Sole! Tiravano la barca, tutto, tutto facevano». Pietrino, 1924, commerciante Filicudi, 2010.- «Piccole piccole eravamo, si figuri che non ho fatto nemmeno la terza elementare!, dopo il primo sonno andavamo a pesca. […] io, papà mio e mia sorella». Nicolina, 1935, pescatrice. Lipari, 2016.- «Magari che erano incinte [ i fimmini] e andavano a mare, sì! Ma non c’è successo mai niente, perché erano preparate! Gente di mare! […] Erano donne, ma erano preparate! […]si dovevano procurare da mangiare! E andavano pure quando c’era il mare mosso a pescare, […] andavano di notte» Vanni pescatore, 1937.Stromboli, 2009. Emerge da questi brevi frammenti di vita, che in questa sede per ragioni di spazio non è possibile ampliare, che le pescatrici uscivano a pesca con altri membri della famiglia oppure, seguendo una consuetudine che passava di madre in figlia, formando equipaggi interamente femminili. Ed è qui sin troppo facile notare, superando la suggestione narrativa, che al centro della scena ci sono donne che per contribuire alla sopravvivenza della famiglia continuavano a lavorare anche quando erano in procinto di avere un figlio o mentre donavano l’alimento vitale all’ultimo nato, a volte affrontando le onde agitate del mare pur di portare a casa il pescato. Il tema del viaggio caratterizzava fortemente i loro vissuti. Insieme alle loro compagne, le pescatrici andavano con i loro vuzzi .nelle altre isole dell’arcipelago per realizzare piccoli commerci, spesso basati sul baratto. Effettuavano poi traversate molto più lunghe, quando accompagnate da un uomo, si recavano sulle coste siciliane: a Milazzo, a Messina, a Palermo. Anche allora erano sempre le donne a remare in mare aperto per miglia e miglia, giornate intere, spesso tirando a rimorchio una barca vivaio con i pesci più pregiati per farli arrivare vivi a destinazione. Tali comportamenti, tradizionalmente consolidati, modificano totalmente il ruolo delle donne nelle comunità marinare siciliane, sino ad ora delineato. Le isolane però non erano solo pescatrici ma anche contadine , come ricorda Grazia pescatrice di Panarea:- «Allora facevamo: il giorno a terra e la notte a mare, a pescare e che dovevamo fare?[…] lavoravamo la terra, andavamo nei precipizi per fare erba, […] In mare ne passammo pure tempeste eh?, tempeste brutte! E affrontammo troppe ondate!». Grazia, 1924, pescatrice. Panarea, 2005 Di giorno contadine e di notte pescatrici come facevano le loro madri e le le loro nonne. Detto altrimenti le isolane adottavano il modus vivendi del pescatore mediterraneo che era costretto a trarre partito sia dalla terra che dal mare, come ha efficacemente annotato lo storico Fernand Braudel nella sua opera sul Mediterraneo. A terra le pescatrici scendevano nei dirupi a raccogliere erbe, si occupavano della raccolta delle olive e dei capperi, si arrampicavano sulle pareti ripide nelle parti alte delle isole coltivate a cereali. Era infatti un uso antico utilizzare scoscesi pendii per i terrazzamenti che Deodat de Dolomieu aveva osservato già nel Settecento e che le donne continuavano a praticare. Donne quindi sempre in movimento, mai erranti. Ritornando al versante marinaro, l’apprendimento del mestiere del mare per le donne delle Isole rimane una consuetudine largamente praticata sino agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso quando le Eolie si apriranno sempre di più al turismo. Venti anni più tardi al mio arrivo nelle Isole le pescatrici, come sopradetto, sono divenute invisibili di fronte alla comunità, espunte dal discorso comune. Non soltanto. La loro esistenza è occultata, negata. Una scelta operata da parte di una comunità che vuole ricostruire la propria identità eliminando dal passato questo tassello di storia, devalorizzandolo. Dimenticando così il coraggio, la forza, l’audacia e lo spirito di sacrificio delle donne di mare ma anche la loro riconosciuta abilità nella pesca e nella navigazione. Oggi, nella ricorrenza che celebra le donne, questo scritto intende con forza sottolineare che la condanna all’invisibilità, la cancellazione di un vissuto, la negazione di una storia di vita è la prima violenza che si può infiggere a una donna ledendone la dignità e l’ identità. Oggi in nessuna delle sette isole dell’arcipelago, né in nessun’altro luogo della Sicilia, c’è un segno, un’epigrafe, una tabella, un cartellone, un nome che ricordi la storia delle donne marinare. Nonostante il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, nel 2018 abbia voluto conferire alle ultime quattro pescatrici ancora in vita l’altissima onorificenza del ‘Cavalierato al Merito della Repubblica’. La prima volta nella storia della Sicilia, la prima volta nella storia d’Italia.
2) “La Donna, non solo l’8 Marzo” – Socia: Daniela Jannuzzi
Donne.
“Il cuore muore di morte lenta, perdendo ogni speranza come foglie. Finché un giorno non ce ne sono più, nessuna speranza. Non rimane nulla. Se un albero non ha né foglie né rami, si può ancora chiamarlo albero? Lei si dipinge il viso per nascondere il viso. I suoi occhi sono acqua profonda. Non è per una geisha desiderare, non è per una geisha provare sentimenti. La geisha è un’artista del mondo che fluttua. Danza, canta, vi intrattiene. Tutto quello che volete. Il resto è ombra, il resto è segreto. Non si può dire al sole -Più sole-, o alla pioggia -meno pioggia-. Per un uomo la geisha può essere solo una moglie a metà. Siamo le mogli del crepuscolo. ”Da queste parole, tratte dal film Memorie di una geisha, vorrei partire con la mia riflessione. In occidente ancora oggi molti credono che la geisha sia stata e sia tuttora una prostituta. Nulla di più sbagliato. La parola geisha significa artista. Queste donne, colte e raffinate, venivano istruite in maniera maniacale sulla musica, il ballo, il canto. Dovevano essere in grado di reggere una conversazione interessante che non annoiasse gli uomini che frequentavano i locali in cui si esibivano. Erano belle certo, ma la loro vita scorreva tutta tra l’Okya e i luoghi in cui intrattenevano gli uomini. Non potevano innamorarsi e non potevano mettere su famiglia. Di solito si trattava di bambine provenienti da villaggi poveri, che le famiglie stremate dalla fame vendevano alle Okya (case gestite da ex geishe che accoglievano le bambine). Qui le bambine, prese a servizio per pulire e riordinare, venivano poi addestrate a diventare maiko (apprendista geisha) e successivamente geishe. Le giovani potevano affrancarsi da queste case solo lavorando e ottenendo, le più fortunate, la protezione di un danna. Così da saldare tutto il debito contratto con l’Okya ed essere libere di trasferirsi altrove. Oggi questa figura è ridotta a un mero strumento di pubblicità. Sono sempre meno le ragazze che intraprendono questa carriera. Ci sono, però, anche altre donne di cui nessuno sapeva nulla, almeno fino alla pubblicazione del libro Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka, la storia delle cosiddette “spose da fotografia”, donne che partivano per raggiungere l’America e sposare loro connazionali, immigrati per lavoro. Una volta arrivate lì, le aspettava un matrimonio con un perfetto sconosciuto e il lavoro nei campi o nelle case dei bianchi. Questo fino alla prima guerra mondiale e alla loro deportazione nei campi di lavoro.In Cina le donne di buona famiglia subivano una sorte ancora più atroce: il loto d’oro. Fin da piccole i loro piedi venivano fasciati e deformati per renderli sempre più piccoli e graziosi e procurare così alla famiglia un buon matrimonio. Il nome loto d’oro, veniva proprio dall’andatura oscillante che assumeva la donna sottoposta alla fasciatura. La leggenda vuole che questa pratica risalga al 900 d.C. quando una concubina si fasciò i piedi con fasce di seta bianca per poi danzare davanti all’Imperatore. La vista di quei piedi così piccoli e sensuali stregò gli uomini al punto da desiderare anch’essi una sposa con le medesime estremità. Dunque, più i piedi erano piccoli, più c’era la possibilità di dare in moglie la propria figlia a un uomo ricco e potente. Poco importava alle famiglie se le piccole dovevano soffrire le pene dell’inferno, arrivando persino a morire per infezioni e cancrena. Le donne con i piedi ridotti a moncherini passavano il resto della loro vita rinchiuse in prigioni dorate. Non potevano camminare se non per brevissimi tratti, quindi restavano chiuse nelle loro case e venivano usate dai mariti come trofei da mostrare. La pratica venne abolita nel 1902 ma ci vollero altri cinquant’anni perché scomparisse del tutto. Pensiamo che le ultime donne dai piedi di loto sono morte nella metà degli anni ottanta. Oggi in Cina la condizione della donna non è migliorata molto. Alcune posizioni lavorative vengono occupate solo da uomini ed è per questo che nelle famiglie si preferisce avere figli maschi, arrivando alcune volte ad abortire se la nascitura risultasse femmina o a darla in adozione a strutture specifiche. Già, perché la Cina è forse l’unico paese ad avere orfanotrofi esclusivamente femminili. Vigendo ancora oggi la legge del figlio unico, secondo cui una coppia può avere un solo figlio, il maschio resta sempre il più desiderato. Se ci spostiamo verso l’occidente vedremo che la situazione femminile non era molto diversa. Durante la reggenza inglese, le donne non godevano di molti più diritti. Una giovane doveva imparare la musica, il canto e il ricamo. Tutto era focalizzato a fare un buon debutto in società e a procurarle un matrimonio conveniente. La donna veniva ancora una volta ridotta a un ornamento, un gioiello da sfoggiare durante cene eleganti e balli importanti. A quel tempo le figlie non ereditavano nulla, tutto il patrimonio andava al maschio. Per questo era basilare procurare loro un buon matrimonio. Così è stato per buona parte dell’ottocento. Le donne non lavoravano, solo alcune facevano le istitutrici o le domestiche. Solo dal 1865, nel Regno Unito cominciò a prender piede la lotta per il cambiamento all’interno della società. Basti ricordare tutto il lavoro svolto dalle suffragette per ottenere il diritto al voto. Trovo assurdo che ancora oggi la donna venga discriminata. In alcune popolazioni i suoi diritti vengono annullati e calpestati giornalmente. La donna, per alcune culture, non ha alcun valore. Può essere ripudiata o peggio uccisa senza che l’uomo venga perseguito. Forse penserete che da noi queste cose non accadano. Noi siamo superiori culturalmente. Ne siete certe? “L’uomo è uomo, la donna è serva. Così è e così sarà nei secoli dei secoli. Amen.” Così recitava Angela Molina nel film di Mauro Ponzi, Volevo i pantaloni. Questa storia, tratta dal libro di Lara Cardella è parzialmente autobiografica ed è stata scritta nel 1989. Non parliamo degli anni venti, né di fine ottocento. Sono certa che in alcuni paesi dell’entroterra siculo, e non solo, sia ancora così. Magari alcune obietteranno che la gran parte delle donne è inserita nel mondo del lavoro, ha una bella casa e una famiglia e occupa magari una posizione di prestigio nell’ufficio in cui lavora. Può essere, ma apro una piccola parentesi: è vero, ci sono di sicuro donne molto impegnate in politica o a capo di grosse aziende. Ma quante di loro hanno dovuto sacrificare tutto per arrivare dove sono adesso? E quante invece non ce l’hanno fatta? Chiediamoci cosa vuol dire per una madre lasciare il proprio figlio/a per tornare subito al lavoro. Il corpo non è ancora guarito dalle ferite del parto e l’anima si fa in mille pezzi nel lasciare quel piccolo essere con i nonni o baby-sitter varie. Il mondo del lavoro non perdona chi è madre, non esiste la flessibilità degli orari. Si deve tornare a essere pienamente efficienti, altrimenti si va a casa. E questo accade a molte donne, sfiancate dal mobbing o vessate dai colleghi e dai capi. Lasciano il lavoro perché costrette e si chiudono in casa a crescere i figli. Allora mi chiedo: si può chiamare progresso questo? Molti non assumono donne con figli o che hanno superato i trentacinque anni. I negozi, per fortuna non tutti, vogliono ragazzine di bella presenza da sottopagare. È questo ciò che vogliamo? Trovo svilente che nel 2021 ci siano ancora tante, troppe vittime di femminicidio. Donne che, come tanti anni fa, devono solo badare a casa e famiglia e devono stare zitte. Agli uomini questo non succede. Continuano a lavorare senza problemi anche da padri novelli. Perché per l’uomo diventare padre deve rappresentare un vanto e per la donna si deve trasformare quasi in una vergogna, una cosa da non dire? Perché dobbiamo ancora scegliere se lavorare o partorire? Continuano a dire che le nascite sono in calo, ma nessuno ha il coraggio di chiedersi veramente quale sia il motivo. Viviamo in un tempo difficile e il recente lockdown non ha fatto che acuire tutti i problemi. Sono aumentati i femminicidi, le depressioni, i problemi economici. Molti hanno perso il lavoro e se per un uomo trovare lavoro superata la quarantina è difficile, figuriamoci per una donna. Concludo la mia riflessione con un desiderio: vorrei che negli anni a venire la donna fosse valutata per ciò che è, una creatura forte, capace di superare ogni sorta di problema pur di proteggere la sua famiglia. Capace di rialzarsi sempre a testa alta, nonostante tutto. Abbiamo sempre dovuto combattere per ottenere qualcosa, ma abbiamo anche dimostrato, con più di un esempio, che possiamo lavorare come e, in alcuni casi, meglio di molti uomini. Mi rendo conto che questo pensiero è utopistico, sono troppe le porte che ancora oggi ci vengono sbattute in faccia. Nulla di tutto ciò accadrà, almeno finché il progresso mentale non andrà di pari passo con quello tecnologico.
Inoltre la socia Domenica Iannello ha contribuito con una sua opera poetica:
Donna d’oltremare
IL RITMO DELLE ONDE SCANDISCE IL TUO DOLORE OGNI ONDA CHE SI INFRANGE SUL PEZZO DI LEGNO CHE TI PORTA VERSO LA SPERANZA FA SUSSULTARE LA VITA CHE HAI DENTRO IL TUO AMORE, LA TUA CREATURA NON SA DOVE NASCERÀ…HA SOLO VOGLIA DI COMINCIARE A VIVERE.NESSUNA COPERTA, DONNA D’OLTREMARE, TI SCALDERÀ, NESSUNO SGUARDO TI CONSOLERÀ,SEI SOLA, DEVI AVERE CORAGGIO,NON SAI SE IL SUO PRIMO PIANTO SARÀ L’ULTIMO, SE QUEL PEZZO DI LEGNO VI REGALERÀ LA VITA O LA MORTE,MA TU SEI UNA DONNA, LO SAI,LA VITA TI ATTRAVERSA IL CORPO,IL DOLORE TI LACERA L’ANIMA, MA LA TUA FORZA DARÀ LA VITA.DONNA D’OLTREMARE SEI NATA PER AMARE.