Cave di pomice : patrimonio di una comunità che “dorme”

Dal 7 al 9 aprile provinciale Porticello chiusa

di Ornella Costanzo

Gentile Direttore,

seguendo l’intervento di Pietro Lo Cascio di qualche giorno fa, vorrei unirmi alle riflessioni sollevate, cogliendo lo spunto delle pagine dei quotidiani nazionali che hanno portato alla ribalta la questione delle nostre cave abbandonate.

Non entro nel merito di quanto è successo in passato, che Lo Cascio ha già riassunto benissimo. La situazione dovremmo tutti già conoscerla bene, ma neanche dopo i diversi articoli pubblicati sul Corriere della Sera il tema sembra di interesse della comunità. Forse la pandemia ha aggravato quel senso di inesorabile rassegnazione che spesso in tanti proviamo quando attraversiamo via terra o via mare la costa nord orientale di Lipari.

Eppure qualche sommovimento dovrebbe aver provocato la lettura della risposta a Gian Antonio Stella, soprattutto da parte di Antonio Calabrò, che non è solo un giornalista e parla a nome della prestigiosa associazione nazionale che presiede, Museimpresa. Calabrò offre apertamente una collaborazione anche se i destinatari non sono dichiarati nel suo articolo. Di più, cita partnership e traccia una road map di intervento, chiamando in causa il Ministero della Cultura, non menzionando invece quello della Transizione ecologica, che pur ne avrebbe forse più competenza.

Insomma, ci sono tutti gli elementi per non fare passare inosservato il carteggio a mezzo stampa, a cui si sono uniti nei giorni successivi il presidente di Federculture e quello del Touring Club italiano. Stiamo parlando di alcuni dei principali attori nell’ambito della progettazione e della gestione del patrimonio culturale italiano.

Neanche questo sembra provocare la minima reazione.

Ma al di là delle dichiarazioni di intenti e delle offerte di collaborazione che possono risultare certamente interessanti, a me, da cittadina di quest’isola pur vivendo attualmente in un altro luogo, piacerebbe capire che idee abbiamo noi come comunità su quell’area, che rappresenta una ferita aperta, quasi fosse -pur con tutte le dovute differenze- la nostra piccola ILVA.

Si parla sempre di patrimonio culturale e ambientale con l’accezione di ricchezza. Questa idea ha accompagnato parole e pagine di discorsi politici, di studi, ha nutrito le Soprintendenze di tutta la penisola; i beni culturali e ambientali sono stati censiti, protetti, vincolati, ma questa ricchezza che deriva dai padri (da cui patrimonio), a noi figlie e figli cosa ha lasciato? E a quelli che verranno dopo di noi?

E se questo patrimonio (ambientale e culturale) venisse svincolato dall’essere di qualcuno e restituito all’uso (non alla proprietà) della comunità o di quella parte di comunità che intende farsene carico? Non è forse arrivato il momento di fare uno scarto di lato rispetto alla visione degli ultimi decenni?

La Convenzione di Faro (Unesco 2005) citata ieri da Iseppi (Touring Club) riconosce anche la agency comunitaria nei processi di salvaguardia e valorizzazione dei beni bio-culturali, materiali e immateriali. Da qui ne consegue non solo la tutela (necessaria), ma viene messo in campo anche l’uso sociale dei beni, attraverso cui la tutela si realizza.

Un bell’esercizio di democrazia, che dovrebbe essere pensato e esercitato da più attori possibili, coinvolgendo chi quel bene potrà fruirlo anche oltre noi, con uno sguardo rivolto alla salvaguardia, al futuro e alla possibilità di vivere il “patrimonio”, che includa una partecipazione diretta alla vita culturale da parte dei cittadini di una comunità.

Per dirlo in altre parole, anche più dirette, mi riferisco a processi di coprogettazione e cogestione di beni storico artistici e naturalistici, a processi collettivi di ri-patrimonializzazione, ad una rigenerazione comunitaria di parti di territorio che sono stati utilizzati dal privato o dal pubblico in modo esclusivo.

Siamo disposti e pronti a fare un esercizio di futuro?